L'Opinione

Quale futuro oltre il coronavirus?

Stiamo vivendo qualcosa che muterà per sempre il nostro modo di vivere, una volta che il covid-19 sarà diventato solo un lontano ricordo come sarà la nostra “nuova vita”? La forte crisi sanitaria ha messo in luce tutte le problematiche che il paese sta dovendo affrontare. La carenza di personale sanitario e di strutture adeguate, fanno riflettere i tagli alla sanità, la capacità di riuscire a gestire un’emergenza economica locale e mondiale, l’aspetto sociale sono solo alcune di queste problematiche. La linea attuata dai paesi colpiti ha mostrato come, da paese a paese, si siano fatte delle scelte differenti, giuste o sbagliate, fino a giungere ad una linea comune, quel “sistema Italia”, nominato dai più, che ha elogiato e, contemporaneamente, criticato il nostro paese. Le prime misure prese dal governo hanno scatenato il panico. Come topi su una nave che affonda, i migranti del XXI secolo, quelli che hanno lasciato il sud per trovare “fortuna” al nord, hanno fatto le valige e si son dati alla fuga, causando un esodo che ha visto treni, pullman ed aerei stracolmi di gente. Le scene si sono ripetute diverse volte, complici le norme poco chiare e le fughe di notizie. Il governo, dopo essersi affidato al “senso di responsabilità” dei cittadini, su richiesta delle regioni, ha schierato l’esercito chiudendo i comuni quasi fossero lazzaretti, dichiarando il “lockdown” per tutto ciò che non fosse strettamente necessario. Ma può una democrazia dover ricorrere a tali norme? E fino a che punto i cittadini possono accettare e comprendere tali divieti? Che a far questo sia un governo pseudo “dittatoriale” come quello cinese fa poco scalpore, ma che norme così severe vengano prese in un paese democratico come l’Italia, facendo gridare quasi a modi “fascisti”, lascia veramente perplessi. Eppure i dati, almeno fino ad oggi, danno ragione alla linea tenuta dal governo. La città di Whuan, epicentro della pandemia, ha visto ridursi a zero i contagi in poco più di due mesi. E in Italia? I contagi diminuiscono ma ancora si attende il picco. E così ti viene da pensare se la libertà, guadagnata a suon di lotte e rivoluzioni, nel XXI secolo non sia altro che un’arma a doppio taglio per chi pensa di saper vivere libero. Abbiamo visto persone di ogni ceto ed età fregarsene delle restrizioni, tutto “alla faccia” del Coronavirus. Insomma ci siamo trovati di fronte a quella che potremmo definire la “fiera dell’egoismo”. Il bene comune, che dovrebbe muovere ogni singolo individuo in un paese democratico, è stato messo da parte per tutelare la “propria” di libertà. La nostra libertà finisce quando è lesa la libertà altrui eppure, incuranti di divieti e di rischi per se e per gli altri, si è dato sfoggio di quanto l’egoismo sia insito in noi. Chi era in settimana bianca, chi ha organizzato feste, chi è andato a ballare e chi a fare aperitivi, incuranti di tutto, con un sorriso spavaldo sul volto, forse troppo sicuri dalle dichiarazioni che chi ci governa ha inizialmente pronunciato, “il Coronavirus non arriverà mai in Italia, se arriverà saremo pronti perché abbiamo adottato misure eccezionali”. E così, in poco tempo, la gente si è ammalata, gli ospedali si sono saturati, i figli ed i nipoti in fuga hanno infettato genitori e nonni. Le persone sono morte, ed ancora oggi muoiono, mentre ancora qualcuno cerca il pretesto per scappare da casa. Le norme si sono fatte più strette, c’è chi ha espresso la volontà di analizzare le celle telefoniche, tenere sotto controllo i cellulari per tracciare gli spostamenti, chi ha sguinzagliato i droni per pattugliare le strade. La realtà spesso riesce a superare di gran lunga la nostra immaginazione e lo scenario che viviamo è degno delle pagine di 1984 di Orwell. E quando tutto questo sarà finito? In che direzione andrà la nostra libertà? Una volta che è stato reso necessario far questo per garantire la sicurezza, e lo abbiamo accettato, chi ci dice che il governo non manterrà, o adotterà in futuro, tali misure per fronteggiare, o scongiurare, una nuova emergenza? Se pensiamo che affidarsi al senso di responsabilità dei cittadini sia servito solo a far galoppare il virus, cosa faremo se questi metodi divenissero la norma? Siamo veramente stati capaci di distruggere, dopo millenni, il concetto di democrazia? Abbiamo forse dimostrato di non essere “civili” come vorremmo far credere? E come ci comporteremo quando i tempi saranno ancora più duri? A tutte queste domande dobbiamo aggiungere una tematica assai più aspra. Eh si, perché se il virus lo combatti limitando la libertà, riducendo i contatti, costringendo la gente a stare a casa e a non uscire, inasprendo le pene, trasformando uno stato democratico in oligarchico, come la mettiamo con l’aspetto economico? Come dopo una guerra, così l’ha definita anche Mario Draghi, c’è bisogno di ripartire, iniziando a rimuovere le macerie, e ricostruire. Ma noi non siamo la Cina, la nostra non è una regione che si è fermata, si è fermato un paese, uno stato! Noi siamo l’Italia, un paese dove le piccole e medi imprese ricoprono l’80% delle imprese sul territorio e ne movimentano l’economia. Le macerie saranno loro, saranno i liberi professionisti, gli artigiani, i piccoli imprenditori che hanno investito una vita per creare una realtà che da il pane tanto a loro quanto ai loro dipendenti. Alla fine di tutto questo, probabilmente, molte di queste saranno solo un ricordo. La stima è che il 44% dei negozianti potrebbe non aprire più! Per superare una tempesta ci vuole una nave che regga il mare ed un equipaggio che sappia ben navigare in acque tempestose. Forse qualcuno arriverà alla fine della storia ma molti, ahimé, non ce la faranno. Lo stato dovrà prendere provvedimenti ben più sostanziosi e mirati per fronteggiare quella che si prospetta la crisi più pesante del dopoguerra. Una crisi che da Sanitaria ed Economica diverrà anche Sociale. Perché se il lavoro viene meno e vengono meno i guadagni cosa faranno tutti quelli che non potevano già sbarcare il lunario? Iniziano già a vedersi i primi casi di esasperazione, la mancanza di denaro e le condizioni di indigenza, come si dice, rendono l’uomo ladro. La speranza è che l’Italia riesca ad alzare la testa, abbiamo delle frecce al nostro arco per riuscirci. La nostra non è un’economia forte, ma certamente siamo stati i primi ad affrontare l’emergenza e probabilmente saremo anche i primi ad uscirne. Puntare su ciò che sappiamo far meglio, adattarci alle difficoltà, una politica protezionista e di forte sviluppo, fatta di collaborazione trasversale tra le aziende, potrebbe portare ad una netta ripresa considerato che i paesi dell’Eurozona saranno ancora al centro dell’occhio del ciclone. Sarà necessario trovare i fondi, non bastano 25 miliardi, per far questo, ma noi italiani, nei momenti di crisi, sappiamo tirar fuori tutto il meglio che abbiamo. Lo stesso premier Conte, nell’ultima conferenza con i paesi europei, ha battuto i pugni sul tavolo. Ma siamo forti da prendere di petto paesi come la Germania, l’Olanda o i paesi Scandinavi? Saremo capaci di rammentargli la storia, non troppo lontana? O reciteremo la parte del ragazzino spocchioso che fa la voce grossa col bulletto ma tiene la coda stretta tra le gambe sperando di non azzuffarsi? La verità è che ci aspettano tempi duri, “mala tempora currunt” dicevano i latini, e prima di riuscire a rispondere a tutti questi interrogativi sarà necessario fermarci a riflettere. Dovremo imparare che la cooperazione, il lavoro di squadra, il vero senso di responsabilità, mettendo da parte le divergenze e le differenze, possono rendere di più e farci sentire più simili e vicini; ci possono dare la forza necessaria per trasformare in realtà quella semplice speranza che alberga in ognuno di noi. Dovremo forse diventare più egoisti nei confronti di “mamma” Europa, forse potremmo veramente diventare una nazione unita non solo quando gioca la nazionale. Prima però dovremo sforzarci di lottare uniti per poter raccontare questa nuova storia, tanto noi quanto i nostri politici.

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