L’informazione ai tempi del coronavirus: soliti malvezzi all’italiana
Il momento è difficile e delicato. Bisogna stare attenti, pesare e soppesare ogni parola, attenersi ai fatti, ai dati ed ai pareri degli esperti. Evitare gli allarmismi ma essere consapevoli dei rischi e delle difficoltà attuali. Non si tratta di una semplice influenza ma non è (speriamo) la peste nera del XIV secolo o la spagnola del secolo scorso. Ma è necessario, specialmente da parte di chi fa informazione, essere cauti, equilibrati, consapevoli, meticolosi nel scegliere e diffondere le tante notizie che giungono da più parti.
L’Università di Catania è stata costretta a diffondere un comunicato stampa “In merito alla notizia diffusa ieri (6 marzo) da alcune agenzie di stampa, riguardante il presunto caso di contagio di uno studente del Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell’Università di Catania, residente a Misterbianco, si precisa quanto segue: Contrariamente a quanto affermato, allo stato attuale l’Università di Catania non ha alcuna notizia di studenti di Agraria o di altro Dipartimento infettati dal Coronavirus Covid-19, nell’ambito delle attività didattiche dell’Ateneo; A seguito di riscontri effettuati, il presunto studente citato nell’articolo risulta essere un ingegnere che, per ragioni extra-accademiche, è entrato in contatto con un docente del Di3A, all’esterno dei locali del Dipartimento. Al fine di evitare il diffondersi di ingiustificati allarmismi nella nostra comunità studentesca, alimentati dal fatto che la notizia è stata ripresa da numerose testate giornalistiche nella serata di ieri e anche nella giornata odierna, vi invitiamo cortesemente a rettificare le erronee informazioni diffuse nella giornata di ieri (6 marzo).”
L’emergenza legata alla diffusione del coronavirus ha finalmente smascherato una certa stampa e certuni giornalisti che, invece di svolgere con equilibrio, consapevolezza e professionalità il loro mestiere, cercano a tutti i costi la notizia sensazionale finendo inevitabilmente col falsare la realtà.
Questo è il giornalismo catanese e siciliano, fortunatamente non tutto. Lo stesso accade a livello nazionale. Il mondo anglosassone, spesso indicato come esempio di buon giornalismo, presenta un quadro molto differente. Come Stefano Lavori (personaggio immaginario inventato dal giornalista napoletano Antonio Menna) ha ironicamente dimostrato come a Napoli l’alter ego di Steve Jobs, il fondatore della Apple, non sarebbe riuscito a far nulla, anche Bob Woodward e Carl Bernstein in Italia non sarebbero stati in grado di condurre un’inchiesta talmente devastante da costringere il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon a dimettersi.
Nel nostro Paese si è ben lontani, appunto, dalla mentalità collettiva del mondo anglosassone come testimoniano i film “Tutti gli uomini del presidente” e soprattutto “L’ultima minaccia” con la scena finale e il direttore del giornale Ed Hutcheson (interpretato da un magnifico Humphrey Bogart) che pronuncia la fatidica frase: «È la stampa, bellezza! La stampa! E tu non puoi farci niente! Niente!». A dirlo (e sentirlo) almeno una volta in Italia, con il medesimo senso di onestà.
La stampa italiana è stata sempre ben lontana da questi esempi. Senza volere tracciarne una tediosa storia, nei primi anni dell’unità i quotidiani erano “liberali e moderati”, nel periodo fascista proni all’Agenzia Stefani e ossequiosi delle veline di regime. Vero c’era la stampa socialista, comunista e anarchica ma quella, per usare un termine che possa rendere l’idea, si poneva in una posizione alternativa se non addirittura marginale. Questa situazione non toglie che singoli cronisti abbiano avuto il coraggio di andare fino in fondo nelle loro inchieste o nella libera espressione delle loro idee. Questo è accaduto, però, nel periodo circoscritto del terrorismo e nella lotta alla mafia. Vengono in mente i nomi di Carlo Casalegno e di Walter Tobagi, di Peppino Impastato e di Mario Francese, di Pippo Fava e di Beppe Alfano. E solo per la caparbia, la professionalità e forse l’eroismo dei singoli. Anche le nostre “penne più aguzze” (Montanelli, Biagi, Bocca, Scalfari) avevano ed hanno sempre un qualcosa di fortemente istituzionale. Una commistione se non una complementarietà con il mondo della politica poco comune negli altri stati, che trova un suo corrispettivo solo in Georges Duroy, il protagonista di “Bel Ami” di Guy De Maupassant. Non è forse un caso che attualmente alla Camera e al Senato siedono complessivamente 57 tra giornalisti professionisti e pubblicisti. Nelle passate legislature erano anche di più.
Tornando nel percorso della stampa italiana, gli “anni di piombo” sono stati anche quelli della lottizzazione politica, alla quale non solo i giornalisti non sono scampati ma alla quale si sono molto ben adeguati. Uno delle tappe fondamentali di questo processo è rappresentata dalla legge n. 103 del 14 aprile 1975 sulla “Riforma della Rai”. Passaggi fondamentali da essa introdotti sono il controllo passa dal Governo al Parlamento e la creazione di un terzo canale. Il TG1 Uno sarà dunque gestito dalla Dc, Rai Il TG2 e dal Psi e il TG3 vdal Pci. Non è un caso, infatti, che la rassegna stampa di Radio Radicale, nata proprio nel 1979 con l’intento dichiarato di fare “controinformazione”, venga chiamata “Stampa e Regime”. Direttore Lino Jannuzzi e primo conduttore Marco Taradash, come il compianto Massimo Bordin precisò personalmente a chi scrive.
L’irruzione dei Tg delle televisioni di Silvio Berlusconi e lo scoppio di tangentopoli mutano assolutamente la scena. Il giornalismo italiano in un sol colpo diventa di inchiesta e di denuncia. La roccaforte istituzionale della stampa viene espugnata e si impongo le istanze fino allora ritenute più estremiste, come quelle legate al Pci e al Msi, nei confronti delle quali pian piano tutti si adeguano. Il “buon” giornalismo italiano di quegli anni fa diventare l’avviso di garanzia un sinonimo di colpevolezza e quindi di condanna. Sono sintomatiche le parole del presidente della Regione Siciliana Rino Nicolosi che chiudono un intervista a Francesco Merlo, sul Corriere della Sera, il 16 febbraio 1995: «Cominciate a ragionare: è mai possibile che la nostra storia sia una storia di infamità, senza distinzioni per nessuno, che tutti i nostri comportamenti fossero perversi, è mai possibile che Rino Nicolosi, la generazione dei Rino Nicolosi, quei giovani ambiziosi che volevano diventare ministri o protagonisti della politica, non avessero le loro strategie generose e coraggiose ma fossero soltanto dei mostri? E se invece i mostri foste voi?».
Questo è il quadro in cui da tempo ci si muove. Ad esempio, parlando di economia, prima non si sapeva cosa fosse lo spread: era argomento noto a pochi addetti ai lavori e forse a qualche giornalista di economia. Quasi quasi adesso si può usarlo per spaventare i bambini, invece di dire: «Fai il bravo o chiamo l’uomo nero» si potrebbe cambiare in «Fai il bravo o chiamo lo spread». Ma era ed è tutto vero?
In un verto senso, è quello che sta avvenendo in questa emergenza sanitaria che, invece di allarmismi e di toni da apocalisse, ha bisogno di essere affrontata anche attraverso un’informazione consapevole, adeguata, corretta e sostenuta da chi conosce realmente fenomeno, casi e possibili soluzioni.
Compito della stampa non è quello di realizzare bensì quello di raccontare, rivelare, denunziare, perfino di proporre. Ma da qualche anno a qualche parte le uniche proposte che avanzano i giornalisti sono quelle di andare a fare i parlamentari oppure di ottenere comodi e remunerati uffici stampa o incarichi di qualsiasi tipo. Per giungere a questo diventa necessaria una totale omologazione e una forte accondiscendenza nei confronti dei poteri forti, peraltro a volte necessaria per ottenere pubblicità o aiuti. Scatta in questi casi in molti giornalisti una sorta di auto-censura che previene, anticipa qualsiasi indicazione possa giungere “dall’alto”. Al contrario, altri scelgono di “attaccare” dissennatamente questo o quell’altro per sostenere qualche “padrone occulto” o i loro stessi interessi. Purtroppo accade anche questo. Quello che, purtroppo, viene spesso dimenticato è l’obbligo deontologico di una corretta informazione, verificata nelle sue fonti e vagliata nella sua attendibilità.
Il 1º gennaio 1897 la rivista Nuova Antologia pubblicò un articolo di Sidney Sonnino dal titolo “Torniamo allo Statuto”, contro la degenerazione del sistema parlamentare italiano. Dopo 123 anni bisognerebbe scrivere un articolo dal titolo: “Torniamo al buonsenso”, contro la degenerazione dei cervelli italiani; compresi quelli di alcuni giornalisti o pseudo tali.