Un libro da raccontare

Lasciatemi camminare sulla brina

Il libro “Lasciatemi camminare sulla brina” (Algra Editore) di Nunzia Santisi apre il nostro cuore a mille e mille sollecitazioni. Dal dolce vizio delle immagini così vive e limpide, così naturali e così espressive, che si tengono a se, nasce un tono languido d’atmosfere sfumate, che strutturano la nostra anima in elegie ormai dimenticate per sempre. L’autrice, su una nuvola dorata, percepisce il tempo andato, si culla in un amorevole linguaggio, che non è solo “ parola”, ma un’esigenza fantastica e una tenace volontà di osservazione realistica. Ciò si può notare nel bellissimo incontro con Rita, nella casa di Ringhiera a Milano, nella nebbia di Calolzio, una “città invisibile” come quelle di Italo Calvino. E la frase che aleggia nel nostro animo rimane sempre: “…non so come il cancro abbia potuto spegnerla…”. Ognuno di questi primi capitoli si risolve in rimembranza di impressioni e di affetti, nella rievocazione di quegli “ Settanta” e di uno spazio di vita ormai perduti per sempre. La nebbia, la scuola serale, i campanili, piazza Pontida e il Pensionato sono momenti scaduti in scene, le apparizioni in ritratti, tendenti a sua volta verso qualche altra cosa, nella misura in cui l’opera si ritorce, trascinando tutti i suoi episodi nella densità mobile del tempo. Era il 1977, dice l’autrice. E la casa di via Don Bosco non conosce che un solo tempo, il presente, e un solo linguaggio, quello di un integrale e uniforme “hic et nunc”, in virtù di uno stile che non conosce e non vuole esprimere altro che il reale e il presente della nostra anima senza confini, proprio nell’indicativo della nostra scrittura. Questa impresa finisce per rimettere nelle sue pieghe della memoria a lungo termine, che non attribuisce alcun valore ad un passato che non muore mai, Bergamo, pioggia,lago, lucciole, le opere del Valsecchi, questo eccesso di presenza materiale in visioni che dovrebbero essere del tutto soggettive, e in cui la descrizione esigerebbe invece evocazioni vaghe, imprecise, inafferrabili, è uno degli aspetti più marcati dello stile così soave della Santisi, soprattutto nell’episodio riguardante nonno Giacomo, una sorta di padre putativo, un angelo sceso dal cielo, che non diminuisce minimamente agli occhi del lettore l’amore per la quiete domestica in un sentimento misto irreprimibile oggettività e una visione idillica, che l’autrice porterà con se nella propria città. E’ un libro da leggere per le nuove generazioni, alieni dai sentimenti più puri e veri, perché ricordare il passato non è solamente un’operazione del cuore, bensì un movimento culturale d forte personalità, atto, pedagogicamente parlando, a smuovere le coscienze dei giovani, oggi “rattrappite” in un oscurantismo morale fatto di internet, social, messaggini e via discorrendo. La Pianura Padana non è un orrido posto da dimenticare al più presto, bensì un soave ricordo del cuore, una sorta di idea strutturalista che segue con pacata dolcezza, operando successivi tagli sincronici e paragonando i quadri tra loro. L’evoluzione letteraria appare allora in tutta la sua ricchezza, conseguenza della particolare struttura del sistema che sussiste modificandosi continuamente di capitolo in capitolo. In effetti ogni frase, anche la più semplice e la più usuale, ogni parola, anche la più comune, posseggono una forma puramente grammaticale che interessa la morfologia, la sintassi, non la retorica. Insomma, “la signora del latte“ siamo noi contemporanei, ma non di quest’epoca bruta e asimmetrica, bensì quelli del buon tempo andato, quando a Bergamo, a Londra o a Parigi, c’erano sentimenti, vera amicizia, e tanta, tanta onestà mentale. La Santisi – diciamolo chiaro – ci commuove, e, come diceva Sartre, il senso di un oggetto letterario non è contenuto nelle singole parole “giacché anzi è proprio esso che permette d capire il significato di ognuna”. Ciò fa del lettore una specie di testimone oculare obbligato quasi a vivere la storia “in actu” e se si determina quale sia il ruolo del narratore, si ottiene un sistema di coordinate che delimitano i vari capitoli del racconto. Si crea nel lettore l’illusione di essere coinvolto nel flusso degli eventi come una maschera, una “persona“ nella coscienza della quale si riflette quanto viene accadendo. O, almeno, così ci pare. Come affermava il grande critico Lukàcs è il concetto di rispecchiamento della realtà oggettiva (lago e Fabrizio, l’amor giovane…), per cui ogni opera d’arte è tanto più grande quanto più gli uomini vi rivivono il presente e il passato dell’umanità (o di noi stessi…) le prospettive del loro sviluppo futuro, come dire qualcosa d’essenziale per la propria vita, e in questo bellissimo racconto della Santisi (a nostro sommesso parere…) è proprio così.

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