Hanns Heinz Ewers
Qui in Italia l’establishment culturale è gravato da una grande colpa, non aver mai celebrato (infatti qui da noi è quasi totalmente sconosciuto), uno dei maggiori autori europei del fantastico (e non solo). Scrittore (con sette romanzi ed innumerevoli racconti, fiabe e poesie), soggettista e sceneggiatore (a lui si deve, in collaborazione con Max Reinhardt, il primo film che diede l’avvio al cinema espressionista tedesco: “Lo Studente di Praga”, del 1913, che è anche considerato il primo film horror della storia del cinema), saggista (da citare l’eccellente studio su Edgar Allan Poe del 1906), traduttore, autore di opere teatrali, personalità inquieta ed eclettica. L’artefice di un capolavoro assoluto della letteratura orrorifica, il racconto “Die Spinne, 1909” (Il Ragno): Hanns Heinz Ewers (1871-1943).
Di lui, nel saggio “Supernatural Horror in Literature”, H.P. Lovecraft ebbe a dire: “…pervade i suoi tenebrosi concetti di una efficace nozione di moderna psicologia: Romanzi come Der Zauberlehrling (L’Apprendista Stregone) e Alraune e brevi racconti come Die Spinne, contengono qualità di rilievo che li elevano a livello di classici.”
E’ stato colui che, partendo da Poe e tenendo oltremodo presente la lezione di Hoffman, ha sdoganato l’orrore dalle atmosfere plumbee e muffite del Gotico per transitarlo nell’era moderna. E’ stato il primo a comprendere e anticipare il linguaggio del cinema, rappresentato dal taglio delle sue opere che ben si prestavano ad essere tradotti in quel nuovo medium ( “Lo studente di Praga”, dalla sceneggiatura dello stesso Ewers, ebbe tre versioni cinematografiche, nel 1913, nel 1926 e nel 1935; “Alraune, 1911” ebbe cinque versioni, due nel 1918, poi nel 1928, nel 1930 e nel 1952; “Der Geisterseher, 1923”, ne ebbe una; “Fundvogel, 1928”, ne ebbe una. Da citare anche “Le Locataire”, film di Polansky del 1976, liberamente ispirato al racconto “Die Spinne”).
Ritengo sia stato uno dei precursori di quella “scuola” (o non-scuola) che proietta le paure, i disagi e il raccapriccio nell’ ambiente urbano, di cui Fritz Leiber è stato uno dei più accreditati continuatori.
Il suo “orrore” non scaturisce tanto dal soprannaturale, ad eccezione di alcuni casi (come “Die Spinne”), bensì dalle ossessione e dalle pulsioni della gente, dai suoi desideri e frustrazioni, dalle fantasie e dalle alienazioni.
Era la personificazioni delle contraddizioni:
si firmava “le mouton carnivore (la pecora carnivora)”; fu fra i primi promotori del Nazismo (in esso forse aveva intravvisto quell’apoteosi del male, da studiare e analizzare, che tanto lo affascinava?), in rapporto diretto con Adolf Hitler, pur essendo impegnato nella lotta per i diritti degli omosessuali e tenendo in gran conto il popolo ebreo, di cui aiutò a far fuggire fuori dalla Germania molti di loro (per queste sue posizioni cadde, ovviamente, in disgrazia, fu etichettato dai nazisti “undermensch – sottouomo”, condannato a morte ed i suoi libri furono bruciati in piazza).
Era un ardente amante della vita e, pertanto, era affascinato dalle sue antinomie, tra le quali lo incuriosivano le perversioni, le bassezze, le pulsioni, le devianze, come ben ha rappresentato nelle sue opere. Si definiva un “viandante nei giardini della follia”. Era un eversivo che capiva che ogni cosa dev’essere esplorata e sviscerata senza falsi pudori, distruggendo tutti i tabù che ne impediscono la conoscenza. Quindi anticonvenzionale, insofferente alle regole ed ai pregiudizi, di mentalità al di fuori di ogni tempo.
Spesso il soggetto delle sue produzioni era la donna, nella sua ambivalenza, con un’esplorazione particolare degli aspetti sotterranei legati al ruolo di ammaliatrice e di strumento votato alla rovina dell’uomo.
Curiosissimo, aperto ad ogni tipo di esperienza, anticipò molti temi attuali come la “riproduzione artificiale” (in “Alraune”) e il “cambio di sesso” (nel romanzo “Fundvogel” del 1928).
Anche il modo in cui si atteggiava esprimeva la sua trascendenza verso i sentieri oscuri dell’anima: elegantissimo, bohemien, dalla positura manierata e lo sguardo trasognato come indirizzato verso territori inconoscibili, a volte esibito assieme ad un sorriso accennatamente ambiguo. Quello che segue è il ritratto che ne fa la giornalista e scrittrice Martha Dodd nel 1939, (personalità incarnante lo spirito conformista e, quindi, estremamente critica nei confronti della sua opera che definiva “storie degenerate e miserrime”), dopo averlo incontrato in un party:
“…una delle persone più disgustose che abbia mai incontrato. (…) La sua faccia aveva quel gonfiore bitorzoluto e osceno degli alcolizzati e dei degenerati. I suoi modi erano affettati, molto cortesi, melliflui, di un magnetismo lussurioso e sensuale (…) creatura immonda e nauseante …”
Certo, il suo modo decadente di porsi era un omaggio al suo grande mito Oscar Wilde, che riuscì anche ad incontrare a Capri nel 1898, ormai l’ombra di se stesso, e la cui condanna lo aveva amareggiato e indignato oltre ogni dire, facendolo scagliare contro la progenie di “benpensanti” (soprattutto giudici e giuria) che, nella loro pusillità, avevano ordito l’infamante vicenda giudiziaria sino al suo scandaloso epilogo.
Le opere lasciate da Ewers sono tante, anche se in Italia è reperibile solamente il romanzo “Alraune”, recentemente riproposto dall’editore Hypnos (facente parte della trilogia di Frank Braun, sorta di alter ego amorale dello stesso Ewers, di cui il primo volume è “L’Apprendista Stregone” e l’ultimo è “Il Vampiro”, mai editi in Italia) e, forse, una manciata di racconti delle raccolte “I Cuori dei Re e altri racconti”, Edizioni La Conchiglia, 2005 e “Il Ragno e altri brividi”, Meridiano Zero, 2017.
Avevo già citato “Il Ragno” (Die Spinne 1909), considerato una pietra miliare nel campo dell’orrore. In questo racconto la trama, l’ambientazione e i personaggi sono costruiti in maniera perfetta. La storia di Richard Braquemont, studente squattrinato che, approfittando di una serie di inesplicabili suicidi avvenuti in un alberghetto di Parigi, presta la sua collaborazione alla polizia, sia per assaporare il brivido dell’indagine e sia, soprattutto, per avere alloggio e vitto gratuiti, iniziata quasi come un gioco banale, man mano si trasforma in un inquietante discesa verso la sua asservente ossessione nei confronti di una misteriosa donna, che trascinerà il protagonista in un finale che potrebbe essere prevedibile se non fosse per un piccolo, ultimo raccapricciante particolare…
Ne “Il Ragno” la figura femminile, che con grazia e ambiguità induce le sue vittime al suicidio, altri non è che la rappresentazione in chiave morbosa della resa da parte dell’individuo, col conseguente spogliarsi di parte della propria singolarità a chi, alla fine, riesce ad affascinarlo, a fargli abbandonare il raziocinio per il sentimento coinvolgente (fondamentalmente c’è una vena di odio sotterraneo verso chi amiamo, sostiene qualcuno, perché costoro ci inducono ad aprirci, ad asservirci, ad essere più deboli e vulnerabili – facendoci accantonare quell’egoismo che è il fondamento, in ambito naturale, della sopravvivenza di ogni specie – …)
Segnalerei anche “Il Ghigno” (C.3.3. 1903), semplice ma evocativo, un breve racconto in cui lo stesso Ewers incontra a Capri Oscar Wilde. In esso esprime la sua incondizionata ammirazione per la grandezza, ormai in declino, dello scrittore irlandese, interrogandosi nel contempo, sulla aleatorietà della realtà.
E, per chi predilige le tinte forti, uno dei primi esempi di splatters: “La Mamaloia” (Die Mamaloi 1907), con lo sfondo dei riti voodoo, dalle esperienze di viaggio caraibiche dell’autore.