Dalle Ande all’Amazzonia
Volo sopra la foresta amazzonica, vuoti d’aria, la paura mi attanaglia lo stomaco, formulo un pensiero ad alta voce: «perché mi è venuta questa splendida idea di volare nel periodo delle grandi piogge?». All’aeroporto d’Iquitos, un caldo infernale mi blocca il respiro, l’aria è carica d’umidità e l’idea di salire su dei rishò a motore non mi garba, in alternativa trovo un taxi condotto da un uomo dai capelli rossicci, certo non rappresenta la tipologia dell’indio. Finalmente un hotel provvisto d’aria condizionata, di mangiare non se ne parla, il “pueblo” ha dichiarato una “serrata“ per protestare contro il governo. La mia curiosità supera la prudenza, esco e mi avvicino alla folla riunita nella piazza centrale; desidero comprendere fino in fondo la realtà politico-sociale di questo problematico ma intrigante e magnifico Paese.
Lungo le rive del fiume, alla periferia della città, una baraccopoli si estende a macchia d’olio, qui vivono gli indios che hanno abbandonato la selva alla ricerca di una ricchezza che non troveranno mai. L’indio che abbandona il proprio luogo d’origine, difficilmente recupera una fonte di guadagno adeguata, si ritrova a rincorrere un benessere illusorio, privo di mezzi di sostentamento e a vivere in condizioni igienico sanitarie precarie.
Passeggio lungo il Rio e mi soffermo ad ammirare il tramonto, incantata per tanta “Vastità” ed è durante una di queste passeggiate solitarie che incontro un uomo della selva: con un largo sorriso e con uno sguardo penetrante esterna la sua disponibilità ad accompagnarmi nella selva amazzonica. Abbandono il grosso del bagaglio in albergo e insieme al piccolo uomo mi reco al porto, saliamo a bordo di una vecchia barca a motore il cui aspetto lascia molto a desiderare. Un temporale mai visto scoppia all’improvviso, la pioggia ci accompagna per tutto il percorso lungo l’immenso fiume, i mulinelli e i numerosi tronchi galleggianti sembrano voler sbarrare il percorso alle piccole imbarcazioni. Dopo diverse ore di navigazione sbarchiamo sulla terra ferma, camminiamo faticosamente nel fango e durante le soste forzate entriamo, per ripararci dalla pioggia, nelle capanne che incontriamo lungo il tragitto. Navigando raggiungiamo un villaggio con semplici capanne, la mia ha una rete per gli insetti. Finalmente riesco a lavarmi, l’acqua è giallastra, infatti, proviene dal Rio, lavo un po’ di biancheria che rimane irrimediabilmente gialla.
Gli indios mi nutrono con i prodotti della selva, rifocillata e felice mi ritiro nella mia capanna portando con me un lume a petrolio, che m’illumina fino a, quando lentamente si spegne. La pioggia, che ad intervalli regolari cade abbondante si arresta, improvvisamente nel buio accade una magia: tutto lo spazio sopra la mia testa s’illumina, sono le lucciole della selva che mi tengono compagnia. Trascorro attimi indimenticabili ad osservare questa miriade di luci e le splendide farfalle notturne di colore scuro primeggiano nella notte, subentrando a quelle diurne di colore azzurro intenso. Passo le mie giornate scivolando lentamente con le canoe sull’acqua, mi soffermo a pescare piraña passando da un rio all’altro; sono come delle strade dentro la selva, tutte si ricongiungono con il “Grande Fiume”, che dal Perù arriva fino in Brasile, con la fantasia tutte le notti, nella mia capanna, lo percorro per tutta la sua estensione.