Una “Giara” in chiave antropologica
È in scena a Palazzo della Cultura/Cortile Platamone, in occasione dei festeggiamenti per il novantesimo compleanno del maestro Tuccio Musumeci, un successo indiscusso di Luigi Pirandello: “‘a Giarra/La giara”. Regia Giuseppe Dipasquale, con Tuccio Musumeci e con Angelo Tosto, Filippo Brazzaventre, Pietro Casano, Luciano Fioretto, Federica Gurrieri, Ramona Polizzi, Lucia Portale, Claudio Musumeci, Vincenzo Volo. E con la partecipazione del piccolo Vincenzo Barrile. Costumi: Dora Argento; musiche Matteo Musumeci; movimenti coreografici: Giorgia Torrisi Lo Giudice; coproduzione: Teatro Stabile di Catania, Teatro della Città – Centro di Produzione Teatrale.
Intrigante questa riproposizione teatrale, tutta siciliana, di ’a Giarra composta dal nostro autore agrigentino quasi agli esordi.
A Il Fu Mattia Pascal (1904), il suo primo capolavoro erano seguiti: La Morsa. (1910), Lumie di Sicilia (1910), Il dovere medico (1913), Cecè (1915), La Ragione degli altri (1915).
La giara, una commedia in un atto unico di Pirandello del 1916 (lo stesso anno di Liolà), è ripresa però da una sua novella già composta nel 1906, pubblicata nel 1909 sul Corriere della Sera e compresa poi nella raccolta Novelle per un anno edita nel 1917.
La rielaborazione teatrale in dialetto agrigentino, dell’ottobre del 1916, fu rappresentata in prima assoluta a Roma nel Teatro nazionale il 9 luglio del 1917 dalla Compagnia di Angelo Musco.
Il 30 marzo del 1925 fu messa in scena sempre a Roma in lingua italiana.
Nel 1982 Abdellah Mohia ha adattato, con il titolo Tacbaylit, il testo pirandelliano in lingua berbera.
Tra le trasposizioni operistiche è da ricordare l’omonima commedia musicale (un balletto dei Ballets Suédois) di Alfredo Casella con scenografia addirittura di Giorgio De Chirico, rappresentata a Parigi nel 1924.
Interessanti le riduzioni cinematografiche: un episodio di Questa è la vita diretta da Giorgio Pastina (1954) e Kaos, dei fratelli Taviani (1984).
La trama è nota.
“Piena anche per gli olivi quell’annata -così inizia la novella- Piante massaje, cariche l’anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire. Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l’olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano”.
Sotto la magistrale e innovativa regia di Giuseppe Dipasquale la scena si apre sul duro lavoro campestre dei contadini dell’occhiuto e sospettoso ‘padrone’ don Lollò, sempre preoccupato che qualcuno possa insidiare la sua robba, di verghiana memoria. Per questo motivo, assistito dall’avvocato Scimé, è sempre in causa con qualcuno.
Nell’intervista rilasciata al nostro giornale il regista punta l’accento sulla sua volontà di recuperare una ‘nuova’ versione antropologica della commedia, allontanandola da quella verghiana. Con il maestro Musumeci, poi, insieme a tutta la troupe e ai suoi collaboratori, con i costumi e la musica si è ricreata un’atmosfera “immersa nel sangue della terra”. La giara diventa così la metafora di una Sicilia madre che inghiotte e poi sputa i suoi figli: “una vittoria panica”.
Con una gestualità primitiva le donne sembrano quasi compiere un rito ancestrale. Più che contadine sono infatti simili a baccanti invasate dal dio Pan. Nei loro essenziali e bruniti costumi, suggeriti dal regista e magnificamente realizzati da Dora Argento, paiono quasi vomitate dalla terra mentre si muovono con gesti ritmati tra fatica, sudore e lussuria temendo sempre l’occhio del severo padrone (Si ‘nzama’ s’affaccia don Lollò dô finistruni!… E si Diu nni scanza nni trova ccà senza fari nenti…).
La costumista ribadisce, davanti al nostro microfono, di essersi ispirata al colore delle statuine di terracotta. Ha voluto lavorare, sull’ipotesi della regia e in sintonia con Dipasquale, cercando di realizzare una narrazione senza folklore né oleografia nel tentativo “di tirare fuori il primitivo del rapporto con la terra e…i sentimenti primordiali”.
Sulla scena con una mossa quasi da metateatro arrivano, attraversando la platea, Don Lollò (Angelo Tosto) e la giara: Ah, sissi, d’ ‘a giarra grossa, pi l’ogghiu, chi cci arrivau ora di Santu Stefanu di Camastra. Pari una casa… tanta è!… Chi voli fari liti puru pi cchista? Puru pi cchista! puru pi cchista! ca la pagau quattr’unzi, dici; e pi quattr’unzi dici chi si nn’aspittava una cchiù granni. Cchiù granni? S’è una casa, cci dicu!
Quanto di meglio si potesse immaginare per festeggiare i novant’anni di Tuccio, esordisce nell’intervista Angelo Tosto. Questa versione elaborata dal regista con aggiunte dello stesso Dipasquale, continua, prende lo spettatore in positivo davanti al negativo rappresentato dal cattivo della situazione: il Lollò da lui interpretato. Sembrerebbe una lotta impari, una sorta di Davide e Golia, tra la supponenza del ricco e la saggezza del popolo, cui spetterà tuttavia la vittoria
Tra la costernazione generale dei contadini -riallacciandoci alla trama- all’improvviso si preannuncia la tragedia: Maria Santissima, Maria Santissima! … Moru… moru… moru… Chi fu? Chi successi? C’aviti? … La giarra! La giarra nova!… Spaccata! spaccata a mità!… Matri di Diu, e cu’ lu senti ora a don Lollò?… Tutti d’accordu, oh! Una parola sula! Sodi a tènicci testa tutti quantu semu, si nni voli ‘ncurpari a nàutri: La giarra si ruppi sula!…
Il padrone urla la sua disperazione: Quattr’unzi di giarra… taliati! … la bedda giarra! Chista fu ‘mmìdia o ‘nfamità! e chi nn’ê fari cchiù ora? È persa! è persa! si po’ jittari!
Ma subito si profila un rimedio miracoloso: Un bonu conzalemmi cci la rimetti a posto ‘ntra un nenti, ca ‘un si cci vidi cchiù mancu lu signu!… ‘U zì Dima Licasi…Avi un màstici miraculusu…
Detto fatto arriva l’artigiano, lo straordinario maestro Musumeci (Bacio li manu. ‑ Avi bisugnu di lu me’ salutu, vossia, o di la me’ arti) e dopo una serie di contrasti col padrone circa la corretta conduzione del lavoro si mette all’opera (m’avi a essiri nigatu lu piaciri di fari un lavuru pulitu, filatu a regula d’arti, e di dari la prova di la virtù di lu me’ màstici), ma incautamente entra all’interno della giara dalla cui bocca non potrà più uscire (Ajutatimi a nèsciri… Ma ‘nzumma… santu diavulu… com’è? chi è? chi ‘un pozzu cchiù nèsciri?).
È l’ever green Tuccio Musumeci che, nell’intervista rilasciataci, ricorda di aver recitato la prima volta con Turi Pandolfini questa commedia “di cui i giovani non sanno niente”. Fu la volta poi di Umberto Spadaro e del tentativo non riuscito di andare in scena con Carlo Croccolo. Certo, conclude, il film, la fiction è più facile e la ricostruzione con il computer è rilassante: “Màkari per me è un un riposo assoluto; ci divertiamo come in famiglia”.
Ritornando allo spettacolo, comincia un battibecco in cui ognuno dichiara, pirandellianamente, il proprio punto di vista ribadendo la sua verità: E chi ajutu vi pozzu dari iu? Vecchiu stolidu… – grida don Lollò– comu? ‘un aviavu a pigghiari li misuri prima di ‘nfilarivi dintra?… Ma ‘u sapiti comu si chiama chistu? Sequestru di persuna si chiama, ribadisce l’avvocato, D’una parti, voi, don Lollò, aviti subbitu a libirari ccà a ‘u zì Dima… Ma di l’autra banna, ‘u zì Dima ccà v’avi a rispunniri puru iddu di lu dannu chi vi veni a cagiunari cu l’avirisi ‘nchiusu nnà sta giarra… Ccà dintra, iu cci fazzu i vermi-insiste il mastro rifiutandosi, a ragion veduta, di pagare i danni– pigghia d’a coffa ‘u marranzanu e sona, e nui cantamu! Allegramenti, conclude.
Alla fine, esasperato -come è noto- il padrone con un calcio fa rotolare la giara che si rompe permettendo al malcapitato di uscire.
In conclusione, contro il motto contadino (Cu’ è supra cumanna e cu’ è sutta si danna!) ‘zi Dima esulta trionfante proclamando la sua vittoria.
Non può essere stato il verismo verghiano -la critica è d’accordo- alla base di questo lavoro che supera la tematica della robba e viene scritto da Pirandello a ridosso del suo saggio sull’umorismo. Nella Giara sono invece presenti in nuce tutte le tematiche pirandelliane: la molteplicità dei punti di vista, i conflitti interpersonali e di classe, l’albagia dei borghesi, la cocciutaggine contadina e la dignità del lavoro, il senso panico della natura, l’ironia grottesca e il ricorso ad una soluzione ‘umoristica’, il paradosso della ragione.
“La vita -sono le parole di Pirandello- non avendo fatalmente per la ragione umana un fine chiaro e determinato bisogna che, per non brancolare nel vuoto, ne abbia uno particolare, fittizio, illusorio per ciascun uomo”.
Ottimo spettacolo, questo del Cortile Platamone, esaltato da una straordinaria regia e da recitazione, scenografia, costumi, musica e coreografia di alto livello.
Auguri Tuccio: AD MULTOS ANNOS!
Foto e video di Lorenzo Davide Sgroi