Spettacoli

Una Clitennestra al di sopra del mito

È andata in scena alla Sala Verga la tragedia Clitennestra. Tratta da La casa dei nomi di Colm Tóibín, con l’adattamento e la regia di Roberto Andò (aiuto regia Luca Bargagna).

Interpreti: Isabella Ragonese, Ivan Alovisio, Arianna Becheroni, Denis Fasolo, Katia Gargano, Federico Lima Roque, Cristina Parku, Anita Serafini. 

Coro: Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini, Antonio Turco.

Scene e luci: Gianni Carluccio; costumi: Daniela Cernigliaro; musiche e direzione del coro: Pasquale Scialò; suono: Hubert Westkemper; coreografie: Luna Cenere.
Trucco: Vincenzo Cucchiara; parrucchiera Sara Carbone.
Produzione: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Campania Teatro Festival – Fondazione Campania dei Festival

Ventisei secoli separano l’Ifigenia di Euripide da La casa dei nomi di Colm Tóibín da cui è tratto il dramma messo in scena stasera con la regia di Roberto Andò.

 In questo lunghissimo arco di tempo si è perpetuato l’immortale mito greco, e non solo (come non pensare ad Abramo e Isacco e addirittura al sacrificio di Cristo?), della giovinetta immolata e uccisa dal suo stesso padre per uno scopo superiore.  Ifigenia attirata in Aulide con l’inganno del finto matrimonio con Achille viene uccisa dal padre Agamennone, consigliato da Calcante e inviso ad Artemide, affinché venti propizi facciano salpare la flotta greca per l’impresa troiana: tragica scelta fra le ragioni della famiglia e il bene della comunità.

Di fronte alle lusinghe del potere ogni scrupolo etico scompare? Agamennone vuole salvare il comando, Achille il suo buon nome; solo Ifigenia, accettando dopo la disperazione di morire, rivela la sua nobiltà d’animo.

E Clitennestra?

Pochi sono gli stralci in cui nell’Odissea appare come dolometis, “dal pensiero ingannevole”, e kynopis, “dallo sguardo di cane”.

Il misogino pensiero greco la tramanda come lussuriosa traditrice e assetata di potere, ignorando che già Agamennone, come se non bastasse, aveva ucciso il suo primo marito, Tantalo, e il loro figlioletto.

Agli occhi di Eschilo, nella tragedia Agamennone, invece è il sacrificio di Ifigenia che scatena l’odio della madre che ucciderà il marito.

Anche nella Elettra di Sofocle Clitennestra è la madre addolorata che prevale: “…spiegami questo: perché mai l’immolò? Chi ve l’indusse, forse gli Argivi? Non aveva diritto di uccidere mia figlia: ei la sgozzò per suo fratello Menelao…”

La Clitennestra euripidea, profondamente umana e tragicamente incredula, rispecchia lo scetticismo del suo autore: “Non credo che gli dei siano così folli da accettare che si auguri il bene a un assassino… Se gli dei non esistono a che serve la nostra sofferenza?”. 

 Per Boccaccio, nel De claris mulieribus, la regina “diventò più famosa per il suo scellerato ardire”.

Tra medioevo e modernità è la colpevole Clitennestra, l’anti-Penelope, il “perfido mostro”, prototipo dell’infamia femminile -adultera, assassina, bramosa di potere -al centro di drammi barocchi e neoclassici.

Fino al contemporaneo Colm Tóibín, pluripremiato scrittore e critico letterario irlandese, nella rilettura di Roberto Andò, classe 1959: scrittore, sceneggiatore, regista teatrale e cineasta, la cui formazione ha radici nella letteratura e nel cinema.

La costruzione del romanzo avviene attraverso il riferimento fondamentale all’Orestea di Eschilo, all’Elettra di Sofocle e a Elettra, Oreste e soprattutto all’Ifigenia in Aulide di Euripide

Se da Euripide riprende il tema dell’ingannevole trappola, è soprattutto ad Eschilo che l’autore si rifà nello straziante episodio del sacrificio, tra urla, viscere e sangue, dell’innocente giovinetta.

“Ho dimestichezza con l’odore della morte… L’odore della paura e del panico… è compagno fedele”: sono le parole della regina di Micene.

Magistralmente interpretata da Isabella Ragonese la Clitennestra di Tòibìn/Andò al fuori e al di sopra dei ‘topoi’ classici è moglie ingannata e furiosa, madre straziata davanti alla crudele verità con cui deve confrontarsi.

L’altra donna, Ifigenia, mette a nudo la sua paura, lo stupore per l’inganno dell’inflessibile e ambizioso padre che sembrerebbe per un attimo vacillare davanti alle lacrime, alle suppliche della primogenita che ha amato e ancora ama.

L’eroica accettazione della sua morte come sacrificio ‘necessario’ la trasformerà in mito.

La terza voce femminile è quella della ‘furiosa’ Elettra che vive emozioni contrastanti e alla quale sarà affidata, insieme al fratello Oreste, la continuazione della strage familiare degli Atridi.

Vendetta o giustizia?

Una tragedia al femminile, dunque, ma dove i protagonisti, tutti, spogliati da ogni stereotipo stratificatosi nel tempo, appaiono immersi nei loro conflitti umani, soli davanti ai loro destini e lontani dagli dei. 

Nella Casa dei nomi, il rifugio di Oreste, gli antichi dei sono assenti, anche i nomi di quanti vi hanno vissuto o risieduto perdono significato.

“Non mi viene in mente nemmeno un nome – dice la regina- Mi vengono in mente le parole, ma non le parole che voglio, cioè i nomi. Se riuscirò a dire i nomi, allora saprò chi ho amato e lo troverò, o saprò come vederlo”.

Per Tóibín “La casa dei nomi è piena di silenzi. I personaggi sono quello che gli altri hanno fatto”.

Anche nella rilettura di Andò non vi sono simboli, niente modelli, niente archetipi, niente eroi, ma soltanto passioni e debolezze tragicamente umane.

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