“Un sogno a Istanbul”: amori struggenti e guerre spietate al Brancati
È in scena al Teatro Vitaliano Brancati di Catania “Un Sogno a Istanbul. Ballata per tre uomini e una donna”. Testo di Alberto Bassetti, liberamente tratto da “La cotogna di Istanbul” di Paolo Rumiz. Regia di Alessio Pizzech. Protagonisti: Maddalena Crippa, Maximilian Nisi, Mario Incudine, Adriano Giraldi. Scene e costumi: Andrea Stanisci. Musiche: Mario Incudine. Luci: Eva Bruno. Produzione: La Contrada Teatro Stabile di Trieste/Arca Azzurra
Spettacolo fortemente suggestivo e travolgente quello in scena al ‘Brancati’; una pièce che è una Ballata, tratta dal bestseller di “La gialla cotogna di Istanbul” di Paolo Rumiz – scrittore e viaggiatore triestino (i suoi reportage narrano viaggi attraverso l’Italia e l’Europa) – che decide di metterla per iscritto e sceglie la forma dell’endecasillabo.
E così a suon di endecasillabi Rumiz racconta una storia d’amore e di morte, a lui giunta attraverso la narrazione orale, che si svolge tra Austria e Bosnia fino a Istanbul: due protagonisti “che si amano sapendo della fine già scritta nel destino”.
Al centro della storia ci sono Maximilian von Altenberg (“Occhi di ghiaccio, ma una voce suadente”), ingegnere austriaco profondamente occidentale e Maša Dizdarević “femori lunghi e occhi tartari come grani di uva nera”, impenetrabile, bellissima vedova del suo grande amore, divorziata poi da chi l’ha resa madre di due figlie lontane. Ma nel cuore di Maša c’è sempre il suo uomo, Vuk, in carcere per un femminicidio di quindici anni prima. Lei lo aspetta e quando viene liberato torna da lui.
Dura poco la loro vita insieme: la scheggia di una granata lo uccide.
L’attrazione tra i due protagonisti (“Ma voi che ne sapete dell’amore? […] della passione che il mondo consuma?”) nasce in Bosnia, “la terra dei lunghi amori e dei lunghi rancori” a Sarajevo, che significa serraglio per carovane, “femmina inerme in mezzo a maschi assetati di stupro” dove Max viene mandato per un sopralluogo nell’inverno del ’97, e dove un amico gli presenta la misteriosa Maša, con un passato immerso nella storia del suo Paese devastato dagli orrori della guerra (“‘Ancora qui si celebra / la vittoria del luogo sulle stirpi.”).
Siamo infatti nel dopoguerra dell’ultimo conflitto balcanico scoppiato a dieci anni dalla morte del maresciallo Josip Broz Tito (1892-1980) che, partigiano durante la II guerra mondiale contro il nazismo, divenne poi Presidente della Jugoslavia, trasformata in Repubblica federale socialista. Dopo la rottura, nel 1948, con l’unione sovietica seppe condurre una politica di equilibrio, ponendosi a capo del ‘Movimento dei paesi non allineati’, prendendo le distanze dall’URSS, contrapponendosi a Mihailović e riuscendo a tenere a freno i vari nazionalismi che travagliavano la penisola e che, inevitabilmente, scoppiarono dopo la sua morte, disgregando il Paese e seminando guerra e distruzione.
Inizia così, tra Max e Maša, una bruciante passione dettata da quel destino crudele che li unisce e poi li allontana fino al tragico epilogo.
“E adesso che cominci la ballata
Seguitela leggeri e soprattutto
Vi prego non chiamatela poesia
Perché il racconto mio su riga breve
È solo l’andatura delle scarpe
Quelle di Max, che ho provato a calzare
Per queste sette leghe d’avventura”
[…]
La fascinosa ‘femmina’ canta a Max la malinconica “Žute dunje”, la gialla cotogna di Istanbul, magico e doloroso poema in cui si parla di una coppia d’amanti in lotta contro un destino avverso e contro la malattia letale della donna, curabile solo con quel miracoloso frutto giallo (“nasconde in sé anche il fiore”), che però arriverà troppo tardi: “Cantò nella sua lingua la struggente / tristezza dei distacchi che i balcanici / adorano ogni tanto condividere / con chi accetta di bere assieme a loro”.
Sulla bosniaca Maša Dizdarević, grava pesantemente il ricordo della guerra.
“A chi ha l’orecchio buono la città
Restituisce secoli di suoni
Il colpo che non sbaglia di Gavrìlo
Il colpo del cecchino col rimbombo
Del mortaio, i blindati che sferragliano
E il crepitare del rogo dei libri
Dentro la Biblioteca nazionale.
Lo può ben dire chi l’ha conosciuta
Era Gerusalemme poca cosa
Rispetto all’armonia di Sarajevo”.
Attraverso il canto affabulatore Max di innamora anche del passato e dei luoghi dell’amata in tutte le loro declinazioni. Restano impressi nel suo cuore i Balcani, Vienna, il Danubio e infine Sarajevo, città che contiene tutte le altre: Trieste, Atene, Istanbul. E le tradizioni, i riti, i profumi di quella parte di Europa nata dall’incontro tra Oriente e Occidente. Nella bella Dizdarević si racchiude il mistero.
“È gialla in Bosnia la neve al mattino
Di un bianco abbacinante a mezzogiorno
E rosa verso sera, se fa bello
Sui monti dalle parti della Drina
Ma quella sera le cime dei monti
Avevan preso con l’ultimo sole
La tinta color miele della Grecia
Per meglio celebrare le magnifiche
Spalle tornite di Maša Dizdarević”.
[…]
Max adorava i Balcani per questo
Il loro riconoscersi la pancia
Il fegato, lo stomaco e la bile
Del nostro continente maledetto
Senza pretesa di esserne la mente
Ed era stato di certo anche questo
A farlo innamorare della donna
Dagli occhi di ciliegia sopra il fiume”
[…]
Brucia il fuoco di una passione fatale e troppo breve che crudelmente li prende e poi li allontana.
Fu l’amore fra due giovani
Per sei mesi per un anno
Quando chieser di sposarsi
Di sposarsi aman aman
I nemici disser no.
[…]
Fin quando irrompe l’ineluttabile malattia con le crudeli deformazioni che porta: la debolezza accascia il corpo un tempo flessuoso e sensuale della donna, i lunghi capelli rossi (una macchia ardente sull’eterno vestito a lutto) cedono il passo ad un cranio lucido e calvo.
Ma l’amore è forte!
L’unica cura è, lei dice, la gialla cotogna che cresce ad Istanbul: guarisce con l’odore delle spezie e i profumi miscelati di quel travagliato Medio Oriente mescolati al dolce miele che ne sublima il gusto.
S’ammalò la bella Fatma
Figlia unica di madre
Per guarir mi porterai
Lei gli disse aman aman
La cotogna d’Istanbùl.
[…]
Ma la ritrovata tenerezza si riaccende più che mai e concede ai due amanti una struggente pausa di felicità. Il desiderio di salvare l’amata costringe Max al distacco, alla lunga mancanza di comunicazione che assume i colori della fine. Comincia un’avventura che porterà Max nei luoghi magici di Maša.
Lei gli disse aman aman
La cotogna d’Istanbùl.
La cotogna andò a cercare
Fin laggiù nella metropoli
Ma tre anni fu lontano
Per tre anni aman aman
Per tre anni lui sparì.
Tornò infine con la mela
Ma trovò il suo funerale,
vi darò duecento scudi
e magari anche trecento
se baciare la potrò.
[…]
Quando Max ritorna con il salvifico medicamento è ormai troppo tardi:
“Poté arrivare a Vienna appena in tempo
Con la cotogna in mano per assistere
Al funerale di lei e implorare
Che un attimo i becchini si fermassero
Per consentirgli il bacio dell’addio”.
[…]
Max si accascia sulla poltrona e riflette su quell’intreccio di amore, dolore morte e sull’inestricabile legame tra l’essere umano, le sue radici e la sua difficile identità mentre attorno a sé il mondo crolla velocemente tra irrimediabili e crudeli strappi e irricucibili ferite che fanno quasi da pendant ai nazionalismi che dolorosamente hanno dilaniato la Jugoslavia del dopo Tito:
“Sono stato a Bisanzio e non ho dubbi:
è davvero impossibile capire
la Bosnia, le sue valli e le foreste
il suo destino, la sua soggezione
a un potere lontano e imperscrutabile
il suo odore di cuoio e sigarette
l’occhio caucasico delle sue donne
la sua vitalità e la sua tristezza
non puoi capire, se sei forestiero
la pazienza infinita dei suoi vecchi
e il ritmo misterioso del caffè
che va centellinato sul divano
[…]
E muore anche lui.
Non puoi capire nulla dei Balcani
Se non vedi quel lume che ti chiama
Luce dispersa alla fine del mondo.
La sola cosa immobile in un traffico
Di navi, pesci, uomini e gabbiani”.
“Questo spettacolo – racconta Maximilian Nisi – è frutto di un lavoro meraviglioso che abbiamo affrontato insieme e che attraverso parole, canti e musiche restituiamo per raccontare un’emozione. La mela cotogna è il frutto originario della Turchia. Un frutto che unisce i popoli. È poesia, nostalgia, dolore. È il legame tra il passato e il presente. Un viaggio nel tempo, verso le nostre tradizioni, alla riscoperta delle nostre origini”.
E aggiunge nell’intervista concessaci come il difficile testo che affronta moltissimi e profondi argomenti uniti dalla musica e dal canto (“abbiamo imparato il croato”) ha avuto il sapore di una sfida: “si contano oggi 197 guerre nel mondo!”
“Le mie musiche e il mio canto – dichiara Mario Incudine esprimendo la sua soddisfazione – affiancano la narrazione negli stili e con gli strumenti dei luoghi percorsi dal racconto: melodie bosniache si alternano a echi di valzer e sonorità mediorientali. Costituiscono il trait d’union tra ballata e drammaturgia. Le note partono dal Mediterraneo arrivano fino in Grecia, girano dai Balcani e tornano in Italia”.
“Cerco di restituire un racconto scenico – conclude il regista – che le nuove generazioni condividano perché la memoria del sangue versato non sia dimenticata e perché un’Europa sempre più indifferente si accorga delle proprie macerie dell’anima. Una storia che vive sul palcoscenico perché i giovani di oggi non restino senza padri come è stata la mia generazione. Il racconto di questo amore è un paradigma della grande storia come è sempre ogni amore che scompagina i confini della nostra anima e ci spinge verso territori sconosciuti e la violenza dei sentimenti si confonde alla rabbia che porta al conflitto chiamato guerra”.
Ci si stacca con difficoltà da questo spettacolo che lascia il segno a più livelli. Dal microcosmo della tragica e sensuale storia d’amore e di morte ci trasporta nel macrocosmo del dolore di un luogo per giungere alla tragedia universale dell’umanità.
Il monito contro la guerra è più che mai attuale e bisogna gridarlo…o cantarlo con una struggente ballata: “Che povero mondo è questo se ha perso il gusto delle storie da ascoltare”.
Foto e video di Lorenzo Davide Sgrois