Spettacoli

Un “Don Giovanni” dei ruggenti anni Trenta al Massimo “Bellini”

È in scena al Teatro Massimo ‘Bellini “Don Giovanni”. Dramma giocoso in due atti di Wolfgang Amadeus Mozart. Libretto di Lorenzo Da Ponte dal dramma Elburlador de Sevilla y convidado de piedra di Tirso de Molina, attraverso il libretto “Don Giovanni o sia Il convitato di pietra” di Giovanni Bertati per Giuseppe Gazzaniga.
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart. Direttore Beatrice Venezi. Regia Davide Garattini Raimondi. Scene Ezio Frigerio. Costumi Franca Squarciapino. Maestro del Cembalo Francesco Massimi. Maestro del Coro Luigi Petrozziello. Allestimento del Teatro nazionale georgiano di Tbilisi e della Maestranza di Siviglia.
Don Giovanni Markus Werba/Christian Federici, Donna Anna Desirée Rancatore/Elisa Verzier, Don Ottavio Valerio Borgioni/Matteo Falcier, Il Commendatore Andrea Comelli/Luca Park, Donna Elvira Jose’ Maria Lo Monaco/Evgeniya Vukkert, Leporello Christian Senn/Salvatore Salvaggio, Masetto Alberto Petricca/ Shi Zong, Zerlina Albane Carrere/Cristin Arsenova.
Orchestra, Coro e Tecnici del Teatro Massimo Bellini.

Le contaminazioni, a me notoriamente poco gradite e che spesso mancano di connessione, fanno da protagoniste in questa edizione dell’opera mozartiana.
Regista, scenografo e costumista hanno fatto a gara per mettere sul palcoscenico un nobile don Giovanni di sapore (in quel contesto) brancatiano, il suo modesto servitore Leporello, alla guida di una bianca auto d’epoca che ricorda lo chauffeur cinematografico di “Sabrina” e due dame con gonne plissé e cloche o luccicanti abiti da sera. Sullo sfondo una sorta di squadra dell’OVRA rigorosamente in borghese, con l’immancabile ‘borsalino’ e pistole in pugno. A questo quadro si aggiungeranno una Zelinda in stile charleston e un Masetto in abito da cerimonia. Meno caratterizzato il Commendatore che, morto, esce subito dalla scena per ritrovarsi nel finale in gilet damascato; più convincenti i partecipanti al ballo in maschera che, essendo appunto ‘mascherati’ indossano adeguati (quelli sì) costumi settecenteschi.
Queste le mie impressioni a primo acchito, ma la giustificazione di tali scelte stanno nell’intervista che Davide Garattini Raimondi, il regista, ha rilasciato al nostro giornale, e che con quest’opera aveva debuttato molti anni fa al Festival del Piccolo Teatro del Friuli Venezia Giulia. L’idea gli era stata ‘regalata’ dallo scenografo Ezio Frigerio e dalla costumista Franca Squarciapino che avevano visto un Don Giovanni così fatto con il protagonista made in USA che fuma, beve in tempi di protezionismo, frequenta personaggi loschi, ‘donnine’ e gangster: una visione meno poetica, meno simbolica e più realista. Per questo ha deciso di adeguarsi, di giocare con quegli anni, ma con molto rispetto per Mozart, senza intaccare la sua musica.
E nel 1787, il trentunenne Wolfgang Amadeus Mozart metteva in scena il suo “Il dissoluto punito ossia Don Giovanni” comunemente considerato uno dei massimi capolavori di tutti i tempi.
Il giovane compositore austriaco, dopo – com’è noto – un passato da enfant prodige (i primi saggi di composizione di un Mozart di appena 8 anni risalgono al 1759) seguito dalla lunga stagione dei viaggi in Europa (con molte tappe in Italia) in compagnia del padre Leonard, in cerca di commissioni ed esibizioni: “Adesso la questione è solo: dove posso avere più speranza di emergere? forse in Italia, dove solo a Napoli ci sono sicuramente 300 Maestri […] o a Parigi, dove circa due o tre persone scrivono per il teatro e gli altri compositori si possono contare sulle punte delle dita? scriveva al padre.
Dopo l’incarico di musicista di corte a Salisburgo e il suo litigio con l’arcivescovo Collored, raggiungeva in pieno il sospirato e meritatissimo successo.
Anni fa, in un’intervista, il compianto maestro Gelmetti, conoscitore profondo della produzione musicale e del Mozart “uomo”, ci condusse, quasi prendendoci per mano, tra i meandri delle note e dell’oscura personalità del grande salisburghese dal famigerato carattere umorale, penetrando nella sua vita, nella tecnica compositiva da lui messa in atto, anche attraverso la conoscenza puntuale del suo epistolario – che amava citare – in cui come sottofondo occhieggia sempre pesantemente la morte, un tema che domina imperiosamente, ma non senza venature di speranza.
L’ultimo decennio della sua breve vita, 1781-91, fu quello dei capolavori: ‘Le nozze di Figaro’ (1786), ricavato dalla commedia di Beaumarchais, il ‘Don Giovanni’ (1787) e ‘Così fan tutte’ (1789/90) con i libretti di Lorenzo Da Ponte, il ‘Flauto magico’ (1791) su libretto di Schikaneder cui è da aggiungere ‘La clemenza di Tito’ (1791), libretto di Mazzolà su un testo rimaneggiato di Metastasio. Opere che si sommano a una produzione (626 composizioni) enorme, specie se confrontata con la brevità del suo destino esistenziale. Questa morte prematura e percepita come ‘misteriosa’, a soli 35 anni, ha dato luogo a oscure leggende, favorendo letture critiche disparate sull’intera opera mozartiana: dall’interpretazione “classica” di Jahn (1856/1859) a quella “espressiva” di E. Hanslick (1854), a quella “storica” (1911-46) di de Wyzewa e de Saint-Foix, a quella “preromantica” di Einstein (1945).
Nell’estate di quel fatidico 1791 un musicista dilettante, un certo conte Walsegg, tramite un suo emissario – quasi certamente Johann Puchberg, commerciante e abituale creditore del maestro – commissionava a Mozart una ‘Messa da requiem’ per la moglie defunta. Mozart temporeggiava. Era invero impegnato nella composizione di quelle opere in cui voleva tra l’altro esprimere, in un linguaggio musicale accessibile, l’affetto e la solidarietà fra le persone attraverso i simboli dell’ideologia massonica. Era stato iniziato, infatti nella loggia ‘Alla beneficenza’ nel 1784, divenendo ‘maestro’ l’anno dopo. Smorzava in seguito la sua attività a causa delle leggi repressive di Giuseppe II, ma rimanendo fedele ai suoi profondi convincimenti esoterici e spirituali. Alla musica massonica, per altro, appartenevano già, la cantata K 471 del 1785, l’adagio per due clarinetti e tre corni di bassetto K 411 dello stesso anno, la musica funebre massonica K 477 (sempre del 1785). Nel 1790 fu uno dei cinque compositori che realizzarono La pietra filosofale; del 1791 è la cantata per tenore e pianoforte Die ihr des unermesslichen Weltalls Schöpfer ehrt (“Voi che onorate il creatore dell’universo infinito”) K 619, su testo di Franz Heinrich Ziegenhagen – esponente dell’Illuminismo radicale ed egualitario, della tolleranza religiosa, contro il fanatismo, contro il militarismo e a favore della pace fra i popoli – e la Piccola cantata massonica K 623.
Tornando al nostro spettacolo, Nando Gioviale e Aldo Mattina hanno ben illustrato le vicende del ‘Don Giovanni’, prima rappresentato con successo, per la compresenza di comicità e tragedia (“Vedi, sono capace di scrivere in tutti i modi che voglio, elegante o selvaggio, corretto o contorto e giocoso.” scriveva alla cugina Maria Anna Thekla) a Praga nel 1787, e poi accolto molto tiepidamente l’anno dopo a Vienna (l’imperatore Giuseppe II ebbe a dire: “Il Don Giovanni non è pane per i denti dei miei viennesi”)
Don Giovanni, figura inizialmente negativa, impegnato nei suoi giochi seduttivi facendosi beffa dei sentimenti altrui, sembra infine diventare un eroe per il suo ostinato e coraggioso rifiuto di pentirsi pur di fronte alla morte e al preconizzato inferno: è un esempio di rivolta laica e illuministica contro il trascendente.
E tra Illuminismo e credo massonico si pone il tragico finale aprendo la via al teatro musicale del Romanticismo.
Pregevole il ‘bel canto’ dei protagonisti accompagnati dall’ottima orchestra affidata alla bacchetta di Beatrice Venezi, da noi intervistata. Ribadisce ‘il direttore’ (come ama farsi chiamare) la scelta filologica di impostare questa partitura complessa, per l’alternarsi dei linguaggi e dei diversi stili, e la gestione degli orchestrali su una versione barocca di questo ‘capolavoro assoluto’, di questo don Giovanni che non è un semplice sciupafemmine ma un libertino, un libero pensatore, con una forte componente umana, che si beffa della morte.
Intervistato a sua volta, il baritono Markus Werba ha confessato di aver desiderato questo ruolo, don Giovanni, fin da quando era sedicenne e di averlo messo in scena quando era ancora studente all’Università della Musica a Vienna, nel teatro di Sissi. Ama il protagonista, continua, perché è un uomo che sa ciò che vuole e che nella sua complessità rimane fedele a se stesso.
Di riscontro Desirée Rancatore, nei panni di Anna, si dichiara felice di cantare insieme a Werba che conosce da tempo, di essersi appassionata a quest’opera in cui amore e vendetta animano la scena; una scena che lei apprezza con tutte le innovazioni apportate in questa edizione, e di essere felice infine di tornare a Catania dove ha debuttato.
Fra tradizione e innovazione, fra toni barocchi e musica preromantica, con grandi applausi si è concluso, così, questo grande spettacolo che unisce alla comicità delle scene seduttive, la riflessione sull’animo umano, il capovolgimento delle convenzioni e la sottesa ribellione alle regole della morale corrente, anche se: “e noi tutti, o buona gente ripetiam allegramente l’antichissima canzon: Questo è il fin di chi fa mal! E de’ perfidi la morte alla vita è sempre ugual”.

Foto e video di Lorenzo Davide Sgroi

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