Tra filosofia e pittura: incontro col Professore Ignazio Vanadia
IVAN, al secolo Ignazio Vanadia è nato nel 1951 a Leonforte (En) dove ha sempre vissuto. Mentre negli anni della sua formazione filosofico-letteraria andava maturando il suo ideale di vita come ricerca del giusto e del bello, trovava nell’impegno civile la sua più naturale forma di realizzazione. Laureatosi in Filosofia, ha insegnato nella scuola pubblica, impiegando le competenze artistiche in attività laboratoriali concepite per lo sviluppo della creatività nei giovani. Si dedica con passione anche alla fotografia e alla scrittura che considera strumenti di ricerca personale della realtà. Rispetto agli anni dedicati all’arte, si sente parlare di Vanadia soltanto in quest’ultimo decennio, poiché Ignazio si è sempre tenuto a debita distanza dal pubblico, ritenendosi, forse per troppa severità nei confronti di se stesso, inadeguato alla grande condivisione. Attualmente propone le sue opere alla “sua gente”, alla cui storia appartiene in modo indissolubile la propria vita e la propria ispirazione artistica. Oltre che a Leonforte, ha partecipato a collettive a Enna, Assoro, Piazza Armerina, Modica, Palermo, Sperlinga e Fiuggi ed ha partecipato a numerose gare di pittura estemporanea ottenendo più volte il primo posto. Le sue opere si trovano esposte alle Gallerie Calcagno di Catania dove è stata allestita la sua prima personale nel 2015. Come egli stesso ci suggerisce, la sua produzione artistica scaturisce da un “ancestrale impulso ad affidarsi a un viaggio per le tortuose strade del proprio inconscio e alle immagini che ne vanno delineando le direzione”. La sua è una ricerca che si concretizza in una continua sperimentazione dei materiali fino al raggiungimento di un equilibrio estetico consono a quello della propria più profonda interiorità, oltre che nell’attenta osservazione di ciò che si muove nel panorama dell’arte contemporanea. Ne risulta una rielaborazione intima di esperienze di relazione con la realtà, una “storia” vissuta e raccontata in immagini astratte e mediante l’impiego di impasti materici di componenti talvolta incompatibili tra loro. Tra i colori e le forme, che tradiscono una istintiva rapidità di esecuzione, occhieggiano parole, oppure addirittura, frasi compiute, vere e proprie metafore sulla solitudine, la memoria, la storia, il tempo, il gioco, il potere. La scrittura sulla superfice dell’opera, quando c’è, diventa così componente del “corpus” stesso dell’opera. Fa uso di carta, colle, sabbie, argille, smalti, oli, acrilici e svariati altri materiali di risulta per creare volume su supporti rigidi di notevole consistenza: vere e proprie “contaminazioni” che servono all’artista per soddisfare la incontenibile urgenza di narrarsi anche attraverso l’esperienza sensoriale delle “paste” che va lavorando.
Per Ignazio: “Nella bottega del pittore ci sono colori da immaginare alla luce di una lampada di sera per figure ancora da inventare: stelle senza cielo, una nuvola per terra, barche senza mare, il progetto di una luna, Giotto che morde i suoi pennelli, Picasso col naso ad angolo convesso, parole di carta, su una natura morta, senza senso, scritte da un autore sconosciuto, forse per provare se funziona una matita, foglie morte in autunno in attesa di rifiorire in primavera e poi la pioggia che non bagna, e fuori il vento per far magica questa atmosfera. Le cose di questa piccola bottega non si possono comprare perché sono ancora nella mente del pittore, conservate per i quadri che non saprà mai fare”…
Ivan, nelle tue opere poesia e cromatismo diventano inscindibili, l’una sembra donare forza all’altro. La materia si impregna di colore e il colore di parole… Nasce prima la poesia o l’immagine?
Diciamo che i due linguaggi hanno la stessa fonte d’ispirazione. La realtà esteriore spesso fa da specchio alle mie emozioni e viceversa, per cui in questo caso stabilire un prima e un poi risulta difficile o impossibile. Forse il tempo è solo una categoria mentale, una realtà fittizia utile solo per la gestione degli affari umani, non adatta a stabilire i codici dell’arte che è aspirazione all’infinito, all’eterno.
Tu, per indole e formazione, sei abituato ad andare in profondità e non a dare spettacolo sui “palcoscenici dell’apparenza”. Prima hai parlato di linguaggio e il linguaggio sottintende la comunicazione. Cosa vorresti che il pubblico cogliesse dalle tue opere al di là delle parole, dei colori e della forma? Di quale sostanza vorresti farli partecipi?
La relazione con gli altri è ciò che da sostanza e continuità alla vita stessa. La comunicazione è parte inscindibile della relazione umana. Ma non sempre ciò che mi sta attorno manifesta il suo senso profondo e io stesso non riesco a soddisfare appieno l’urgenza di far conoscere il mio mondo interiore. Le parole, i colori, le forme per me sono mezzi per esprimere le mie armonie e le mie disarmonie, le mie rapide allegrie e le mie lente malinconie, il mio guardare il passaggio del tempo, i miei amori e le mie dimenticanze, i messaggi che m’invia la mia terra e i suoi silenzi, i volti di Dio che mi appaiono in forma di luna o di cielo, di alberi svettanti o di case sbilenche cariche di povertà.
Ma per te quanto ancora importante è il giudizio del pubblico? Questo desiderio di condividere, supera il timore di non risultare gradito?
Sono convinto che l’arte debba essere quanto più “democratica” possibile. Nonostante ciò, non tutto è proponibile a tutti: ho capito che lo stesso mercato dell’arte è capriccioso, a volte imprevedibile e forte è la tentazione di inseguire i gusti e le tendenze. Ne deduco che l’artista debba seguire invece un proprio percorso di ricerca che risponda alle proprie inclinazioni, alle proprie curiosità, ai propri criteri di equilibrio estetico, alla propria poetica, a prescindere dai risultati più o meno graditi al pubblico. Insomma l’arte è il regno della libertà, dove potersi muovere con leggerezza o con tormento talvolta, ma sempre come se il prima e il dopo non esistessero. Solo così l’artista può farsi “segno della storia”, documento al servizio di chi vuol capire il mondo.
Nonostante lo stile neo-informale e materico, si intravedono comunque luoghi e luci della Sicilia. Cosa significa per te essere un artista siciliano di genuine origini e cosa sentiresti di dire ai siciliani di oggi?
Sono fortemente legato alla mia terra e anche se talvolta tento di esprimere le mie visioni di ambienti lontani o addirittura surreali, la tentazione di fermare lo sguardo ai luoghi che mi hanno visto nascere mi vince e così torno a viaggiare tra i vicoli del mio paese, tra le sue povertà, tra le sue colline e i suoi fumi. Le sono riconoscente, tutto qua. In fondo, se non fossi mai nato da queste parti forse il mondo intero non ci sarebbe stato. Siamo tutti briciole di vita del meccanismo universale, immancabili, insostituibili ? Forse. Sto vivendo per scoprirlo. Ai miei conterranei vorrei dire di smetterla di non sentire il bisogno di migliorarsi e che ci può essere ancora tanta storia di luce da poter raccontare
Puoi chiudere tu l’intervista regalandoci due righe “dipinte” da parole?
Se la notte quando piove e ci comanda il vento non ci chiudessimo in casa, saremmo parole su pezzi di carta colorata svolazzati in un angolo di cortile. O forse stelle.
“…Nascono così i colori fra le mie mani: s’incontrano una volta sola catturati da un’emozione, poi consistono e solo dei pensieri molesti possono distrarmi da questa unica realtà. La cercavo, solo che non lo sapevo e ora che ci sono”.