Ti uccido perché sei MIA!
Nella vacuità dorata della nostra società che ci illude con i suoi scintillii di perfezione, non ci accorgiamo che ogni giorno di più le nostre esistenze sono solo un riflesso della realtà e che stiamo sprofondando sempre più in basso nei meandri più oscuri delle nostre pulsioni primordiali. Pur di ottenere ciò che crediamo essenziale siamo disposti a tutto, anche a togliere la vita a un altro essere umano.
Mentre le parole di una canzone di Carmen Consoli “La signora del Quinto Piano” risuonano nell’aria pesanti come pietre di colpevolezza:
“Il suo ex è ogni sera davanti al portone
con un martello in mano
non v’è alcuna ragione di aver paura
di aver paura
questa è una conclusione
dei funzionari della questura”
Sempre più spesso, donne di qualunque età, finiscono per essere considerate l’oggetto da possedere a qualunque costo. Un’ossessione che invade la mente e la stritola in un vortice di violenza.
Uomini fragili, schiavi delle proprie insicurezze, schiacciati da una società che li vuole forti e senza titubanze, per affermare se stessi non trovano altra via che la prevaricazione, il possesso della vita della propria compagna fino ad arrivare a strappargliela brutalmente nel momento in cui si rendono conto che il controllo sta sfuggendo via.
Così donne indifese continuano a morire, uccise dai loro fidanzati, mariti, uomini che le hanno mortificate e oppresse per anni, ma che non accettano che la “loro” donna possa aver trovato la forza di ribellarsi e di troncare la relazione.
Un’affermazione di se stesse che deve essere punita in modo feroce, sparandole o meglio accoltellandole, strangolandole o prendendole a martellate per vederle in faccia mentre si spengono tra le loro mani.
Il possesso e la gelosia sono gli unici sentimenti dominanti, il solo movente delle loro azioni.
Così come è accaduto, la settimana scorsa, ad Alessandra Matteuzzi, uccisa sotto casa a colpi di martello, calci e pugni e qualche giorno dopo a Giuseppina Fumarola uccisa con due colpi di fucile mentre stava andando a lavorare. E insieme a loro tutte le altre 125 donne uccise dall’inizio di quest’anno.
La morte della “propria” donna diviene l’unica strada per mostrare a se stessi e agli altri la propria presunta superiorità maschile, per reclamarla di fronte a una società che subito si indigna in modo plateale e riempie i telegiornali con le storie della povera vittima, ma poi cala il sipario e ricomincia a sedurre con la cultura del maschio predatore assillando con pubblicità e immagini televisive in cui predominano solamente corpi lucidi e perfetti di donne che mostrano sfacciatamente le loro forme generose. Corpi che si tramutano in oggetti che producono piacere, in oggetti da possedere. E le relazioni sentimentali si inaridiscono, si riducono a rapporti superficiali, schiacciati dalla vuota apparenza che ci avvolge soffocandoci.
Purtroppo le statistiche registrano dati inquietanti, ogni tre giorni, in Italia, una donna muore, uccisa dal proprio partner che spesso poi si suicida perché in questa dinamica perversa molto spesso vittima e carnefice si fondono in un’unica tragedia umana.
Forse ognuno di noi dovrebbe soffermarsi a riflettere, dovrebbe risvegliarsi da questo torpore e spingersi a riconsiderare i valori profondi ed essenziali quali la parità e il rispetto reciproco.
Però, nonostante le lotte femministe, è difficile sradicare secoli di patriarcato in cui la donna è sempre stata considerata un essere inferiore.
Aristotele, il padre dell’antica filosofia greca, affermava che la donna era un essere umano imperfetto, sottoposto alla perfezione dell’uomo.
Convinzioni, ribadite nel Medioevo, con l’affermazione di un Cristianesimo che aveva sancito la fragilità delle donne e quindi la conseguente predominanza degli uomini, in quanto discendenti di Eva e portatrici della sua colpa atavica.
E se ancora oggi, in una società che ipocritamente declama a gran voce parità di diritti, si continua a parlare di disparità di trattamento economico nei posti lavoro e nell’attribuzione degli incarichi di rilievo, vuol dire che non ci si è impegnati a fondo e che permane una cultura di prevaricazione maschile che persuade e autorizza uomini deboli a opprimere sia psicologicamente che fisicamente le loro compagne.
Se questo disprezzo per la donna, per la sua dignità, si inserisce in antichi pregiudizi che facciamo fatica a estirpare, bisogna continuare a lottare attraverso la scuola e i mezzi di informazione e comunicazione, ma dovremmo essere soprattutto coadiuvati dalle istituzioni troppo spesso assenti e che invece dovrebbero prendere dei seri provvedimenti per tutelare tutte le donne che vivono questo inferno di possessione malata da parte dei loro uomini.
Smettiamo di sottovalutare le denunce di maltrattamenti o stalking e non abbandoniamo nessuna donna alla follia di questi amori deviati.
Tutti insieme, noi, membri della società, tribunali e organi di governo.
Altrimenti continueremo ad assistere impotenti a questa violenza senza fine che ci risucchia tutti in un unico calderone di omertà e indifferenza.
E uomini senza identità continueranno ad agire indisturbati, carnefici legittimati a uccidere la propria donna, l’oggetto di loro proprietà e di nessun altro.