Teatro Massimo Bellini: trionfo di Donizetti con “La fille du régiment”
Al Teatro Massimo Bellini è andata in scena la prima dell’Opéra-comique in due atti di Gaetano Donizetti: “La fille du régiment”.
Libretto di Jean-François Bayard e Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges.
Interpreti:
Marie Jessica Nuccio,
Tonio John Osborn,
Sulpice Luca Galli,
Marchesa di Berkenfield Madelyn Renée
Hortensius Francesco Palmieri
La duchessa di Krakenthorp Ernesto Tomasini
Orchestra, Coro e Tecnici del Teatro Massimo Bellini
Direttore Giuliano Carella
Maestro del coro Luigi Petrozziello
Regia di Marco Gandini
Allestimento storico, scenografie e costumi di Franco Zeffirelli
Direttore degli allestimenti: Arcangelo Mazza
Costumi ripresi da Anna Biagiotti
Assistente costumista: Giovanna Giorgianni
Luci: Antonio Alario
Allestimento del teatro Massimo di Palermo
L’opera buffa è una filiazione, è noto, della musica d’élite riservata alle corti: l’opera ‘seria’, erede della tragedia classica e poi del teatro rinascimentale.
Il melodramma giocoso nasce a Firenze dalla Camerata dei Bardi, un gruppo di nobili che si riunivano tra il 1573 e il 1587 nel Palazzo del conte Giovanni Bardi per dibattere sul rapporto tra poesia e musica.
Questo esperimento musicale si svilupperà a Napoli, Roma e Venezia, accendendo fin dall’inizio una vivace ‘querelle’ circa la sua identità tra serio e faceto, canto e recitazione.
In un primo momento tale novità prese forma di intermezzi eseguiti negli intervalli: vere e proprie “commedie per musica” per spezzare il clima tragico del melodramma ‘serio’.
Bisognerà aspettare il XVIII secolo con la riforma di Apostolo Zeno, di Metastasio, e poi di Gluck per stabilire canoni formali creando un’opera a sé stante.
L’esclusione dell’elemento comico dal melodramma e le istanze illuministiche di coinvolgimento di un pubblico più vasto determineranno così la nascita dell’opera buffa.
Fu Carlo Goldoni a mettere in scena dal 1748 il dramma giocoso sentimentale o patetico ma con un lieto fine.
Mozart poi svilupperà le suggestioni goldoniane scatenando in Francia la ‘querelle des bouffons’.
Ma saranno Rossini e Donizetti che, superando la distinzione tra i due generi e la retorica, a segnare il vero trionfo dell’opera buffa.
Da quest’ultimo tipo di spettacolo -tra musica, canto e recitativo- avrebbe preso vita in seguito il ‘vaudeville’ (il “Theatre du Vaudeville” risale al 1792), ‘l’operetta’ poi con l’accentuazione dell’elemento coreografico e, in tempi più vicini, il ‘varietà’ e il ‘musical’.
Dopo, la musica romantica e quella verista -eliminando il recitativo- apriranno la strada al bel canto, alla lirica pienamente ottocentesca.
Dal 1810, data della prima opera di Gioacchino Rossini, al 1848, l’anno in cui morì Gaetano Donizetti, tre compositori dominarono l’opera italiana: Rossini, Donizetti e Vincenzo Bellini.
Quest’ultimo, grande amico e ammiratore di Rossini, non risparmiò invece pesanti critiche al nostro, a fronte della grande stima che Gaetano nutriva per lui tanto da scrivere una ‘Messa di Requiem’ per la morte del Cigno.
In seguito la chiave sinfonica di Wagner e la drammaturgia di Verdi influenzeranno la ‘Giovane Scuola’ di Leoncavallo, Giordano, Cilea e Puccini.
In tale contesto si inserisce dunque Gaetano Donizetti (1797-1848) che, con le sue circa 70 opere, segna il passaggio dal romanticismo del secondo Rossini a quello appassionato di Verdi.
Nato a Bergamo il 29 novembre 1797, quinto di sei figli da una famiglia di umili condizioni, Gaetano Domenico Maria Donizetti riuscì ad affermarsi dopo una preparazione che lo vide a Bologna, Venezia, Roma e soprattutto a Napoli entrare in contatto con grandi compositori come, appunto, Rossini e Bellini e arrivando al S. Carlo di cui fu direttore artistico dal 1822 al 1838.
Uno strano destino il suo in cui si intrecciarono grandi successi a dolori, lutti familiari (perse i genitori, la moglie e tre figli), fino alla malattia, la sifilide meningovascolare, che gli causò gravi disturbi mentali.
Anche i trionfi che lo condussero fino a Parigi nel 1838 e a Vienna, raccomandato a Metternich da Rossini, non gli davano serenità.
Finì la sua vita in manicomio morendo nel 1848 appena cinquantenne.
Donizetti tuttavia non aveva mai smesso di lavorare, componendo quasi freneticamente sia opere buffe che melodrammi romantici: Felix Mendelssohn di lui scriveva: “finisce un’opera in dieci giorni…qualche volta arriva a dedicare tre settimane”.
“Mendelssohn, l’industriosa formichina tedesca, e Donizetti, la cicala italiana” si diceva.
Con la sua tecnica musicale solida e sicura, basata Gluck, Haydin e Mozart, rinnovò in senso lirico/romantico la tradizione operistica napoletana; travalicò con grande equilibrio i confini tra comico e serio come nelle sue opere buffe.
“La fille du régiment”, l’opera in scena, fu composta in francese a Parigi nel 1840. Il successo fu tale che il coro ‘Salut à la France’ venne usato per anni come inno nazionale al pari della Marsigliese.
L’opera buffa, ambientata nel I atto tra le montagne del Tirolo, narra tra marce, comiche e straordinari virtuosismi le avventure di Marie.
Trovata durante una battaglia, la piccola Marie viene accolta e adottata da un intero reggimento di soldati napoleonici e, divenuta giovinetta, allevata come vivandiera.
L’intrepida fanciulla dovrà difendere l’uomo dei suoi sogni, sospettato di essere una spia antifrancese, contro i suoi molti ‘padri’.
Come se ciò non bastasse scopre di essere nobile, nata da una marchesa, sua sedicente zia che, nel II atto la conduce nell’ avito castello di famiglia strappandola al suo mondo e al suo amato.
Ma, alla fine tra numeri esilaranti, folle virtuosismo ((come ‘l’aria dei nove do di petto’ del grande tenore americano John Osborn affiancato dalla brava Jessica Nuccio) e incredibili gorgheggi, duetti, terzetti e cori, Marie raggiugerà la meta prevista dal lieto fine e realizzerà il suo sogno d’amore scardinando i pregiudizi sociali.
Certo, a proposito di cambiamenti sociali, il fatto che l’opera sia stata composta nel 1840 potrebbe collegarsi anche all’atmosfera di quegli anni caratterizzati in Francia dalla rivoluzione del’30, dalla fine dell’assolutismo borbonico di Carlo X, dalla monarchia liberal-borghese di Luigi Filippo, il re dei ‘Francesi’ e da venti di socialismo.
E a Gaetano Donizetti nato povero e giunto agli allori del successo internazionale tali cambiamenti non potevano dispiacere.
Ma tutto ciò rimane un retropensiero sublimato dalla bravura degli interpreti, dalla grazia della regia e della scenografia e soprattutto dal travolgente divertissement!
Nella foto il tenore John Osborn