Politica

Sulla necessità di un’adeguata élite politica: dal caso Sangiuliano al caso Lollobrigida

Le recenti rivelazioni di Maria Rosaria Boccia – sulla mancata nomina al ministero della cultura come consigliera del ministro e sui rapporti intimi con Gennaro Sangiuliano – hanno costretto il Ministro della Cultura, come ormai è noto a tutti, a rassegnare le dimissioni.

Ma se Sangiuliano piange, chiedendo scusa alla moglie e a Giorgia Meloni, in diretta TV, Francesco Lollobrigida non ride. Giorgia Meloni, nelle ultime settimane, ha mostrato distacco e irritazione nei confronti dell’ex cognato. E questo perché, dopo la separazione da Arianna Meloni annunciata dalla stessa e dopo non poche “gaffes” del Ministro dell’Agricoltura, tra cui la fermata del treno per scendere prima o la famosa frase sulla «sostituzione etnica», Lollobrigida è di fatto fuori dal gruppo. Anzi, dal cerchio magico. “Diverse fonti consultate da Repubblica negli ultimi giorni — a conoscenza di quanto accade a Palazzo Chigi e in via della Scrofa — confermano questa dinamica. Detta ancora più chiaramente: c’è una frattura tra le due sorelle e il ministro dell’Agricoltura, a lungo braccio destro e sinistra della fondatrice di FdI, storico plenipotenziario del partito. Che questa frattura sia personale o politica, impossibile dirlo. O forse, è semplicissimo: entrambe le cose… Lollobrigida, raccontano dirigenti che l’hanno sentito, si sente assediato. Indebolito (anche se la sua presa su FdI, avendo gestito le liste, è comunque significativa). Nulla, insomma, sembra saldo, a partire dalla sua posizione nell’esecutivo. E tutto questo a poco più di due settimane dal G7 dell’Agricoltura che è chiamato a presiedere”.

In tanti, da destra, parlano di complotto o, a detta del Ministro Matteo Piantedosi, di imboscata, nei confronti dell’esecutivo: in tanti, da sinistra, pur riconoscendo l’intelligenza e le capacità di Giorgia Meloni, parlano di inadeguatezza dei suoi ministri, di mancanza di senso dello Stato, di incompetenza della classe politica e citando Pareto, Mosca, Michels rimpiangono i ministri di un tempo ricordando che Aldo Moro andava in spiaggia con giacca e cravatta.

Forse come ha scritto Marcello Veneziani, che certamente non è di sinistra, per uscire “dalla riduzione della politica al gioco della Boccia per far cadere a uno a uno i birilli di governo”, che dura ormai da troppi giorni, occorre “alzare decisamente il tiro e porre una questione culturale che ha un’enorme ricaduta pratica, politica e civile. Da tempo diciamo che la politica non si divide più tra destra e sinistra ma tra alto e basso. Da una parte ci sono le élites e dall’altra i popoli. Vista in superficie la tesi è fondata, anzi scontata e la sosteniamo convinti da tempo”.  

“Da una vita – continua Veneziani – mi sforzo di correggere coloro che disprezzano le élites contrapponendovi il popolo: distinguiamo, dico, tra le élites che sono aristocrazie, i migliori, gli optimates di classica memoria, e le oligarchie, che sono le caste privilegiate che comandano e fanno i loro interessi sulla pelle dei popoli. La differenza tra élites e oligarchie è la stessa che corre tra classi dirigenti e classi dominanti: le prime si assumono la responsabilità di guidare una società, le seconde si arrogano il privilegio di sovrastarle”.

Ed anche Veneziani, che ha studiato Pareto, sostiene che “le élites ci sono sempre state nel mondo e sono necessarie, trainanti: in ogni campo c’è una minoranza eletta, un’aristocrazia fondata sulla qualità, l’eccellenza, il merito e il valore. Nessuna società, nessuno stato, nessuna politica può fare a meno delle élites. Se lo fa, va verso la sua decadenza. È necessario che ci siano guide, classi dirigenti, gerarchie piramidali, che prevedono non solo il vertice e la base, cioè il leader e il popolo, ma anche i gradi intermedi, le élites. 

Questa mancata considerazione della qualità, delle aristocrazie necessarie, dei migliori ha una forte ricaduta sui governi e spiega la scarsa qualità delle classi dirigenti, non sottoposte a una selezione, ma solo a un meccanismo elementare di fedele sottomissione al leader o ai suoi delegati e al più di consenso elettorale. Per un buon governo, il consenso popolare conta quanto la qualità – che comprende l’eccellenza, la competenza, i meriti, le virtù – e la tradizione, ossia l’esperienza storica e il sentire comune tramandato nel tempo tra le generazioni. Non basta la partecipazione popolare per fare un buon governo, occorre anche la qualità delle decisioni e dei decisori”.

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