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Sofferenze private ed esposizione mediatica. Qualche riflessione sul Festival di Sanremo

Nel 1976 Alberto Sordi dirigeva il film “Il comune senso del pudore”; un film nel quale, con un certo sarcasmo, si descriveva il cambiamento del costume e del senso del pudore italiano alla fine degli anni ’70.
Se nel film di Sordi il cambiamento del senso del pudore riguardava soprattutto la preponderante diffusione dell’erotismo nella vita comune e nel cinema, oggi assistiamo ad un tipo di cambiamento assai diverso.
Si è scoperto che il dolore fa spettacolo!
Non va più quindi vissuto in solitudine nel chiuso delle proprie case, ma deve essere raccontato, esibito, persino talvolta amplificato.
La sofferenza non si racconta più solo ai propri cari, agli amici fidati, alle pagine di un diario (ne esistono ancora?) ma viene esposta, mostrata sui social, recitata sul palcoscenico.
È da poco finito il Festival di Sanremo e la splendida modella Bianca Balti è stata ospite graditissima mostrandosi al pubblico senza capelli, con le cicatrici in vista e chiedendo a gran voce di non essere definita “una guerriera”, perché i malati di cancro non sono guerrieri (e se lo sono lo sono purtroppo loro malgrado!).
Molti poi i testi delle canzoni presentate che raccontavano questioni di natura intima e privata: il vincitore Olly nella sua “Balorda nostalgia” parla di un amore finito, ma ha anche precisato di aver cambiato il titolo della canzone per far contenta la nonna (che usava spesso questa espressione a quanto pare); Simone Cristicchi nella sua “Quando sarai piccola” racconta della difficile convivenza con una persona malata di Alzheimer; poi ha cantato anche Fedez, la canzone si intitola “Battito”, parlando di depressione di ansia, lotta interiore e di ricerca di guarigione; per meglio veicolare il messaggio il celebre rapper si è presentato sul palco dell’Ariston indossando delle lenti a contatto completamente nere (simbolo forse del buio assoluto che vive chi soffre di depressione).
Il Festival del 2025 si è sicuramento distinto per l’abbandono del concetto di mascolinità tossica (Toni Effe, icona della trap italiana, è arrivato 25esimo, e solo dopo aver polemizzato perché la direzione gli aveva impedito di indossare una collana d’oro massiccio che pubblicizzava un noto marchio di gioielli) e l’emergere di testi dolorosi e toccanti che propongono una nuova versione del sentire maschile: profondo e delicato (si pensi ad esempio al testo di Lucio Corsi “Volevo essere un duro”, così in controtendenza rispetto alla ben più popolare versione del “maschio che non deve chiedere mai”).
Questa esibizione pubblica di dolore e sentimenti privati è segno (positivo?) di una mentalità che cambia, di un maschio che non deve essere per forza violento, di una malattia che non impedisce di continuare a vivere, sorridere e lavorare, e di un dolore che va necessariamente sdoganato in quanto parte ineliminabile della vita di ciascuno di noi e che quindi non può più essere considerato un tabù. Cantanti e presentatori dell’ultimo Festival si sono voluti fare portavoce di questi messaggi nuovi e sicuramente rivoluzionari.
Qualche ulteriore riflessione però sorge spontanea.
La folla, si sa, è voyerista e spesso gode nel vedere che i propri idoli, belli, ricchi e apparentemente intoccabili, non vivono perennemente sull’Olimpo come dei, ma soffrono e piangono come tutti gli altri.
Figure come Fedez, che insieme alla ex moglie Chiara Ferragni, hanno costruito la propria intera carriera sui social dando in pasto al pubblico ogni istante della propria vita e di quella dei propri figli, potrebbero aver accentuato, nella canzone presentata a Sanremo, alcuni dei propri disagi esistenziali proprio per cavalcare la nuovissima onda del “maschio sensibile che soffre e che piange come un comune mortale”. La Balti, splendida con e senza capelli, ha più volte affermato che dopo la diagnosi di cancro nessuno stilista le offriva più lavoro perché veniva vista solo come malata. Andando a Sanremo voleva veicolare un messaggio, giusto e bellissimo (i malati non sono diversi dagli altri e devono vivere e apparire) o ha trovato una opportunità di lavoro in un momento difficile?
In tanti, pensando soprattutto a Fedez, a Cristicchi, si sono chiesti se davvero mostrare il dolore sul palco o comunque renderlo pubblico sia segno di una mentalità cambiata e di un nuovo “comune senso del pudore”, o se siamo di fronte all’ennesima strategia per ottenere più visibilità, likes e in definitiva facile successo?
Inoltre questo Festival che mostra una mascolinità tossica in caduta libera, è stato ancora una volta condotto da un uomo, Carlo Conti, che peraltro nel presentare la Balti non ha esitato a definirla oltre che guerriera anche madre. Ci ha pensato Geppi Cucciari, la brillante co-conduttrice del Festival, a correggere subito il tiro dicendo di Conti “un grande conduttore, un artista, ma sopra ogni cosa sei un padre”!
Quindi no al maschio virile e tossico. Ma la conduzione del Festival spetta sempre ad un uomo che ha optato per un approccio più tradizionale, puntando su musica e spettacolo, con meno spazio per i grandi temi di attualità. Ma questa volontà di “neutralità” è stata messa a dura prova dalla situazione internazionale, caratterizzata dai colloqui di Trump e Putin per raggiungere la pace in Ucraina, escludendo dalle trattative l’Europa, e dal conflitto tra Israele e Gaza. Uno dei pochi momenti in cui la questione è stata indirettamente sfiorata è stato l’intervento delle artiste Noa e Mira Awad. Le due cantanti, rispettivamente israeliana e arabo-israeliana di origine palestinese, hanno eseguito una versione di Imagine di John Lennon. L’intento era trasmettere un messaggio di pace, senza schierarsi apertamente. Ma se l’esibizione voleva essere un gesto conciliatore, ha finito per alimentare ulteriori critiche perché essendo eccessivamente “neutra”, non è stata in grado di cogliere la drammaticità del conflitto e la tragedia umanitaria in corso a Gaza. Alla favoletta con un possibile finale felice hanno creduto in pochi perché a gridare vi sono 47 mila morti accertati, di cui il 70% sono donne e bambini: migliaia di cadaveri ancora sotto le macerie, intere famiglie spazzate via per sempre; 100 mila tonnellate di esplosivo scaricate sulla popolazione, l’88% della Striscia cancellata dalla faccia della Terra; 80 miliardi di dollari di danni, 50 milioni di tonnellate di macerie, oltre 20 anni per riacquisire una parvenza di normalità; 2 milioni di sfollati, il 91% della popolazione senza cibo.
Un silenzio, come ha scritto Giulia Fuselli, che fa rumore perché non tutto il dolore è uguale. E quello di chi subisce le guerre non ha ancora il diritto di essere mostrato e gridato su un palco.

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