L'Opinione

Social e IA. La Privacy ha esalato il suo ultimo respiro

Social, piattaforme digitali, IA e per ultimo, in questa moderna scala di valori, l’Essere Umano che si dissolve in un dato anonimo pur di compiacere e di adeguarsi all’avanzata imperiosa delle tecnologie che rendono sempre meno umani gli umani e li condannano a un isolamento innaturale.
Ma, paradossalmente, in questo oceano di solitudine non c’è più spazio per la nostra privacy. Siamo soli in questo immenso universo digitale in cui non ci sono identità personali ma solo i Big Data, una quantità infinita di dati che ci cataloga, ci inserisce in precisi schemi secondo i calcoli di un freddo algoritmo.
In questo gioco tra umanità e artificialità, in cui si intrecciano in modo fitto luci e ombre, la nostra privacy ha esalato il suo ultimo respiro.
Il nostro diritto di decidere quanto i nostri pensieri, gusti e abitudini privati debbano essere conosciuti in pubblico, ha smarrito ogni sua valenza.
Nessuno di noi ne ha oramai il pieno controllo. Questa nostra esigenza di possedere una vita privata tutta nostra, uno spazio solo nostro, è stata erosa e noi, più o meno consapevolmente, abbiamo perso di vista l’importanza basilare della nostra privacy
L’incalzante realtà digitale ha completamente cancellato il travagliato percorso storico che ci ha portati a riconoscerne l’essenzialità.
Se ritorniamo indietro nel tempo, già in epoca medievale esisteva un timido concetto di riservatezza inteso come allontanamento dagli altri, anche se era un privilegio concesso solo ai nobili e agli uomini di fede in quanto il popolo viveva e lavorava in costante contatto con gli altri membri della comunità feudale.
Solo, secoli dopo, con l’avvento della borghesia, si è cominciato a rivendicare il diritto di poter avere uno spazio lontano dal gruppo. Un iniziale riconoscimento alla propria riservatezza ma ancora collegato al concetto di proprietà, come se questo diritto ad avere una propria intimità fosse equiparato a un bene materiale di cui poter godere e disporre.
Bisognerà aspettare il 1890, per una teorizzazione della privacy- intesa non solo come difesa della propria integrità fisica da violazioni esterne, ma soprattutto come protezione dei pensieri e dei sentimenti- quando i due avvocati Louis Brandeis e Samuel D. Warren con un loro articolo, introdussero il “right to be alone”, il diritto alla propria solitudine. Un importante passo nel riconoscimento della privacy come quell’insieme imprescindibile di pensieri privati, di emozioni e sentimenti che contraddistinguono ogni essere umano.
Emozioni e sentimenti che, oggi, l’artificialità tecnologica ha catalogato come dati marginali e ininfluenti, privando così la dimensione umana di un aspetto invece ineliminabile: la sua intimità.
Concetto che invece fu riconosciuto da questi due avvocati, che proponendo un nuovo modo di intendere la sfera personale, aprirono la strada a importanti cambiamenti che indussero a considerare come violazioni della privacy non solo gli attacchi ai propri beni materiali, ma anche quelli inerenti all’invadenza della stampa, alle foto giornalistiche scattate senza il consenso e soprattutto a nuove norme di tutela contro tutte le forme di ingerenza da parte dei datori di lavoro sulle informazioni personali dei dipendenti e da parte di qualunque organo pubblico nei confronti dei cittadini.
Un lungo e tortuoso percorso di conquiste graduali che hanno sancito che ogni uomo non può essere tale se non ha garantita la propria privacy.
Per questo nel 1848 nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, l’articolo 12 ha sancito che” nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata…e ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni”.
Un articolo che poi è stato ripreso e precisato nel 2000 nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza) in cui si ribadisce che “ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare”.
Un percorso importante e ineliminabile da però sembra essere stato vanificato dalle piattaforme digitali e dalla pressante invadenza dell’intelligenza artificiale.
La nostra privacy si è come dispersa nell’universo digitale, in cui le nostre informazioni personali circolano sotto forma di Big Data che costituiscono la linfa vitale dei colossi informatici mondiali. E noi che sempre più spesso, cediamo le nostre informazioni, più o meno consapevolmente, per poter usufruire dei benefici tecnologici, diventiamo, sempre più, sterili numeri nelle griglie algoritmiche e abbiamo finito con il confondere il reale con il digitale.
Per dirla con le parole dello studioso Floridi, non “viviamo più nella biosfera, ma nell’Infosfera” questa nuova dimensione in cui siamo solo dati su dati, senza più anima né pensieri.
L’essere umano non è più al centro, poiché è sempre più dipendente da macchine sempre più intelligenti che non fanno altro che carpire dati snaturando l’essenza umana dei propri sentimenti.
Le nostre informazioni personali, sono solo informazioni asettiche, non più elementi costitutivi della nostra identità.
La vita privata che Virgina Woolf descriveva come “ di gran lunga il più prezioso dei beni” è stata disintegrata da una tecnologia fredda e lineare che non potrà mai avere la completezza di un essere umano, per quanto somigliante a livello fisico.
E noi, anche se, a gran voce, sventoliamo la nostra privacy come un diritto inalienabile, sembriamo poi considerarla come una sorta di ingombro quando si tratta di dover interagire con il mondo digitale. Non ci preoccupiamo minimamente di dover cedere al sistema informatico le nostre informazioni personali, rinunciamo a proteggerle senza indugi pur di far parte di questa nuova dimensione che ci promette, giorno dopo giorno, risultati sempre più sorprendenti.
Noi, ingordi fruitori, ci illudiamo di entrare a far parte di questa luccicante realtà e poco importa se siamo stati privati di noi stessi, defraudati dei nostri pensieri.
La nostra privacy è il prezzo che siamo disposti a pagare per questa nostra moderna illusione.

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