Primati di Sicilia

Quando l’Italia poetava in siciliano, la Scuola poetica siciliana

Nei primi tre quarti del 13° secolo fiorì in Sicilia quella che è passata alla storia come la Scuola poetica siciliana. Essa fu il primo movimento italiano letterario che creò una vasta produzione lirica in volgare, i poeti si raccolsero alla corte di un sovrano illuminato, l’imperatore e re di Sicilia Federico II di Hohenstaufen e dei suoi figli Enzo e Manfredi. Un mecenatismo che si integrava in un più ampio e ambizioso progetto politico-culturale e che precorse quello dei principi rinascimentali.
Questi poeti appartenenti in gran parte alla cancelleria reale, come notai e giudici, erano soprattutto siciliani ma provenivano anche dall’Italia meridionale che allora faceva parte tutta del regno di Sicilia e da altre regioni d’Italia. Essi sposarono una poetica comune, che riprendeva la tradizione lirica provenzale che trattava l’amore cortese, utilizzando però, prima volta in Italia, come strumento letterario il proprio volgare siciliano, arricchito da francesismi e latinismi colti. Tale tendenza verso un comune ideale linguistico costituì un unicum nel panorama nazionale tale da rivestire una notevole importanza storico-letteraria. Venivano usate tre tipologie metrico-linguistiche, la canzone, la più aulica, la canzonetta e il sonetto, forma metrica inventata proprio dai siciliani e tanto seguita nei secoli successivi in tutta Europa, vedi il Petrarca e Shakespeare.
Nella Scuola possiamo quindi rintracciare la prima nascita della tradizione lirica italiana a cui si rifecero nei decenni successivi i poeti toscani che ereditarono la tradizione siciliana. I componimenti della Scuola diverranno famosi in tutta la penisola, poetare significava scrivere in siciliano aulico. Tra i suoi massimi esponenti ricordiamo Iacopo da Lentini inventore come dicevamo del sonetto, da Dante chiamato nel suo Purgatorio e da tutti conosciuto come il “notaro”. Altri poeti furono lo stesso Federico II, il figlio Enzo, suo suocero il re di Gerusalemme Giovanni di Brienne, poi Stefano Protonotaro, Giacomino Pugliese, Rugieri d’Amici, Guido delle Colonne, Mazzeo di Ricco, Pietro della Vigna, Rinaldo d’Aquino, Perzivalle Doria, Tiberio Galliziani, Compagnetto da Prato, solo per citarne alcuni.
Vediamo cosa dice Dante nel suo De vulgari eloquenzia: ‘E per prima cosa facciamo un esame mentale a proposito del siciliano, poiché vediamo che il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli Italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano; e che troviamo che molti maestri nativi dell’isola hanno cantato con solennità, per esempio nelle famose canzoni “Ancor che l’aigua per lo foco lassi e Amor, che lungiamente m’hai menato”.
Ma questa fama della terra di Trinacria, a guardar bene a che bersaglio tende, sembra persistere solo come motivo d’infamia per i principi italiani, i quali seguono le vie della superbia vivendo non da magnanimi ma da gente di bassa lega. E in verità quegli uomini grandi e illuminati, Federico Cesare e il suo degno figlio Manfredi, seppero esprimere tutta la nobiltà e dirittura del loro spirito, e finché la fortuna lo permise si comportarono da veri uomini, sdegnando di vivere da bestie.
Ed è per questo che quanti avevano in sé nobiltà di cuore e ricchezza di doni divini si sforzarono di rimanere a contatto con la maestà di quei grandi principi, cosicché tutto ciò che a quel tempo producevano gli Italiani più nobili d’animo vedeva dapprima la luce nella reggia di quei sovrani così insigni; e poiché sede del trono regale era la Sicilia, ne è venuto che tutto quanto i nostri predecessori hanno prodotto in volgare si chiama siciliano: ciò che anche noi teniamo per fermo, e che i nostri posteri non potranno mutare’; trad. di P.V. Mengaldo.
Un primato letterario che dovrebbe, dunque, inorgoglire chi è siciliano.

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