Per non dimenticare: l’uccisione di Giacomo Matteotti
Cent’anni fa, il 10 giugno del 1924, fu ucciso il nemico pubblico numero uno del fascismo: il segretario del Partito socialista unitario Giacomo Matteotti.
La sera del 12 agosto del 1924 un cantoniere consegnò alla polizia la manica di una giacca macchiata di sangue. Fu in seguito appurato che la giacca apparteneva a Matteotti. Il suo cadavere fu poi ritrovato il 16 agosto all’interno della tenuta del principe Boncompagni; il cadavere appariva straziato e in evidente stato di decomposizione.
Il ritrovamento del cadavere sembra essere stato casuale; anche se non manca chi rileva che la data in cui il corpo fu trovato, proprio il giorno dopo Ferragosto, indicherebbe che il rinvenimento del corpo potrebbe non essere stato solo frutto del caso. Gli italiani erano in ferie e avrebbero di certo prestato minore attenzione ai fatti di cronaca. Ci sarebbe stato, dunque, nell’immediato, minor clamore.
Nato a Fratta Polesine, in Trentino, il 22 maggio 1885, Matteotti cominciò ad interessarsi alla politica sin da ragazzo, sulle orme del fratello più grande, Matteo, e seguendo l’esempio del padre Girolamo che era stato consigliere comunale nel suo paese nel 1896. Proveniva da una famiglia ricca, tanto è vero che i suoi denigratori lo accusavano di essere l’esponente di un socialismo impellicciato, ma nessuno poteva negare che fosse a favore degli ultimi, degli operai, dei contadini.
Dopo aver frequentato il liceo, si laureò in legge all’Università di Bologna ed entrò subito in contatto con i movimenti socialisti. Durante la Grande Guerra, alla quale non partecipò per rimanere accanto alla madre vedova, manifestò accese posizioni antimilitariste che gli costarono tre anni di confino.
Fu eletto per la prima volta in Parlamento nel collegio di Ferrara nel 1919; i suoi compagni di partito gli diedero subito il soprannome di “Tempesta” per il suo carattere focoso, indomito e passionale.
Passava ore a studiare nella biblioteca di Montecitorio per trovare i dati che avrebbe poi inserito nei suoi articoli e nelle sue inchieste, che così pericolose e moleste dovevano risultare in seguito per il regime.
Nel 1921 pubblicò l’Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, in cui si denunciavano, per la prima volta, le violenze delle squadre d’azione fasciste durante la campagna elettorale delle elezioni del 1921.
Nello stesso anno, il 12 marzo 1921, subì una prima gravissima violenza da parte dei fascisti.
Per quella data Matteotti doveva parlare a Castelguglielmo. La lotta si era fatta da alcuni mesi violentissima; in Polesine si era già verificato il primo assassinio. Mentre Matteotti percorreva la strada a bordo di un calesse, alcuni uomini in bicicletta lo fermarono per avvisarlo che si stava preparando un’imboscata contro di lui. Giunto a Castelguglielmo dopo aver parlato alla Lega e aver abbandonato da solo la sede, alcuni uomini, armati di rivoltella, gli intimarono di ritrattare quanto aveva appena pronunciato e di lasciare quanto prima il Polesine. Pare che dopo essere stato bastonato e ricoperto di sputi fu trasferito a forza su un camion e rilasciato dopo poco, strattonato, in disordine ma di animo tranquillo. L’intimidazione subita non gli impedì comunque di partecipare attivamente alla campagna per le elezioni politiche del maggio 1921, dove fu eletto nel collegio Padova-Rovigo.
Nell’ottobre del 1922 tutta la corrente riformista, che faceva capo a Filippo Turati, fu espulsa dal partito socialista e i fuoriusciti fondarono il nuovo Partito Socialista Unitario di cui Matteotti divenne segretario.
Nel 1923 Matteotti, continuando la sua attività di oppositore del regime, diede alle stampe un saggio dal titolo “Un anno di dominazione fascista”, in cui criticava il Duce per aver sostituito l’arbitrio alla legge.
Le denunce di Matteotti non si poggiavano su fragili argomentazioni di tipo ideologico, ma su un’ampia raccolta di testimonianze (in parte raccolte durante le lunghe sessioni di studio a Montecitorio) come nel caso della complessa, quanto problematica, situazione economica del Paese i cui conti pubblici risultavano in forte deficit e in cui il problema della disoccupazione e della migrazione sembravano impossibili da risolvere nonostante le grandi promesse degli anni Venti. A queste problematiche di ordine generale si univa, in seguito alla Marcia su Roma, l’impossibilità per i lavoratori di tutte le categorie di potersi riunire liberamente all’interno di associazioni sindacali che ne difendessero i diritti e l’obbligo di iscrizione all’interno delle corporazioni fasciste, pena l’esclusione dal lavoro.
Queste furono solo alcune delle osservazioni e denunce pronunciate in Parlamento dal giovane segretario del Partito socialista che, di fronte al silenzio di molti, scelse infine di smascherare la “conquista armata” del potere politico compiuta dal Partito Fascista nel corso delle elezioni del 6 aprile 1924, momento in cui egli stesso sottolineò la perdita di autorità da parte della legge e dello Stato, ormai asservito alle dispotiche decisioni di una sola fazione politica.
Peraltro, la consultazione si svolse in un grave clima di intimidazione e da ripetute violenze da parte dei sostenitori del Partito Nazionale Fascista.
Il candidato socialista Antonio Piccinini fu ucciso, altri candidati di sinistra furono feriti, ovunque furono impediti i comizi, bruciati i giornali, impedito l’affissione dei manifesti e attaccate le stamperie.
Lo stesso Matteotti aveva subito nuove e gravi minacce: il 2 luglio del 1923 recatosi al Palio di Siena, insieme alla moglie Velia Titta, iniziò ad essere ingiuriato e minacciato verbalmente da alcuni spettatori fascisti, così da essere costretto a scappare prima dell’inizio della gara. Il giorno seguente sulle pagine de La Scure Matteotti e la moglie vennero considerati “esseri … lasciati provvisoriamente in circolazione, la rivoluzione fascista o prima o dopo li acciufferà e allora alla morte civile seguirà quella corporale”.
Ma Matteotti non si era lasciato intimidire e aveva continuato a lottare per le sue idee e a mostrare le aberrazioni della dittatura.
Idee che culminarono nel celebre discorso pronunciato alla Camera dei Deputati, il 30 maggio 1924, in cui vennero elencate, caso per caso, le intimidazioni e le violenze subite sia dai candidati che dagli elettori ad opera delle squadre fasciste. Matteotti, nonostante il clima intimidatorio, propose di invalidare i risultati elettorali, ma la sua richiesta rimase inascoltata. La sua figura iniziò ad essere attaccata dalla pubblicistica del tempo, ed in particolare apparvero alcuni articoli sul Popolo d’Italia in cui egli veniva additato pubblicamente quale un “miliardario… amico di social patrioti e guerrafondai”, o ancora quale “il principale contestatore” del fascismo, che con il suo sovversivo discorso aveva infangato il tempio della democrazia. Se molti intellettuali gradualmente presero le distanze dal deputato, alcuni colleghi di partito si complimentarono per l’ardore delle sue parole e per il suo coraggio, ma tutti furono lontani dal pensare che da lì a qualche giorno Matteotti sarebbe stato ucciso, nonostante lo stesso deputato avesse preannunciato la rappresaglia fascista.
Personaggio scomodo per la sua schiettezza, aveva condotto un’inchiesta verità anche sullo “Scandalo dei petroli” avvenuto proprio nella primavera del 1924, durante il quale la società petrolifera statunitense Sinclair oil aveva ottenuto delle importanti concessioni petrolifere sul suolo italiano pagando delle cospicue tangenti ad alcuni tra i principali uomini di governo. Si ritiene che Matteotti avesse raccolto una grande quantità di prove che sarebbero successivamente confluite in un discorso da pronunciare alla Camera l’11 giugno. Il testo avrebbe di certo colpito il già vacillante governo di Mussolini, dimostrando come la corruzione fosse divenuta pratica di governo e il denaro pubblico venisse utilizzato per il raggiungimento di scopi privati e non per il bene collettivo.