Peppe Vessicchio a tutto campo
Il noto maestro e direttore d’orchestra Peppe Vessicchio, ospite della scuola di musica Melody and Time a Santa Teresa di Riva (Me), ha rilasciato per gentile concessione questa intervista esclusiva-
Ci parli della sua recente esperienza d’audizioni tenutasi a Villa Ragno.
«È stato un interessante bagno di umanità. Veniamo da un periodo di rapporti web, notoriamente “sterili”; privi di quella empatia che la musica crea di presenza. Incontrare il talento e le aspirazioni di coloro che studiano la materia della musica è un argomento che mi sta a cuore e spero che per i partecipanti si riveli altrettanto utile alla loro crescita artistica. Gli organizzatori hanno fatto un buon lavoro e Villa Ragno si è mostrata un posto valido per questo genere di iniziative».
Come si è svolto il suo soggiorno in Sicilia?
«La Sicilia è una terra con la quale sento una forte parentela. Mi capita di incontrare sempre persone straordinarie, sia sui palcoscenici delle arti sia in quelli della vita. Questa volta l’accoglienza è stata per l’ennesima volta al di sopra di ogni aspettativa. Prima, durante e dopo le intense e caldissime ore di lavoro venivo rifocillato con attenzioni di tutti i tipi, culturali, gastronomiche e antropologiche di straordinario interesse e profondità. Ho conosciuto anche operatori attivi nel campo della didattica, delle scienze, della filosofia e della spiritualità. Tutto in un tempo breve che analizzato a posteriori, vista la densità e lo spessore degli avvenimenti, sembra essere durato settimane».
A suo parere ci sono delle differenze nel metodo d’insegnamento delle scuole di musica privata e pubblica del Nord e Sud Italia?
«Sicuramente c’è differenza. L’impronta sociale dei due principali soggetti in relazione tra loro, cioè docente e discente, è diversa a seconda delle latitudini di appartenenza. Alcuni alunni del sud trovano un ideale status nell’atmosfera didattica del nord Italia, di solito più rigorosa e distaccata, molto inquadrata. Viceversa c’è l’individuo che viene stimolato allo slancio e alla possibilità di verificare il limite dei propri impulsi artistici grazie ad ambienti più elastici dove di contro, lo sappiamo, può annidarsi facilmente lo spirito negligente. Se poi in queste analisi sulla funzionalità didattica aggiungiamo pure le varianti “pubblico e privato” la questione si allarga parecchio perché andrebbero presi in considerazione anche i piani di studio e l’offerta formativa nella sua interezza. L’istruzione musicale in genere, negli ultimi anni, ha allargato i suoi orizzonti includendo strumenti attualmente in voga nella musica di mercato con la loro specifica letteratura; dando vita ai dipartimenti di musica Jazz e musica pop. È un fenomeno recente ma che prende in esame due filoni sui quali purtroppo ancora non esiste una didattica sperimentata a dovere. Se prendiamo come esempio un corso di pianoforte classico, sappiamo con certezza quali possano essere gli esercizi e le composizioni relativi ai vari stili di questo macro-genere adatti a costruire le necessarie abilità tecnico-esecutive e anche adatti a poterne testare propedeuticamente l’acquisizione. Non mi sento di poter dire che esista lo stesso per uno strumento come il “piano pop” o il “basso elettrico” e la parte teorica di supporto .
Lo spirito ritmico e l’intenzione dinamica col quale si suonano questi strumenti in ambito pop è sicuramente un fattore determinante per ottenere l’efficacia richiesta ma non vedo perché la palestra articolare delle mani (e della mente) debba essere così tanto ridotta. Stefano Bollani suona Liszt ma anche Gershwin e se all’occorrenza, per ognuno di questi autori, lui magari riuscisse ad inserire nell’esecuzione qualche pertinente sfumatura interiorizzata attraverso la frequentazione musicale degli altri generi ne ricaveremmo, in termini di linguaggio, sicuramente un arricchimento. Capacità e impegno vanno aumentati costantemente. Se invece abbassiamo l’asticella e permettiamo che gli studenti si “laureino” con tale pochezza di palestra, di letteratura e di mezzi attualmente in uso, se pur con mirata attitudine alla media esecutiva della musica popolare in commercio, possiamo facilmente prevedere un futuro con scarso contributo da parte di queste leve a quello che è il panorama nazionale della musica popolare. È pur vero che talvolta le svolte importanti negli idiomi arrivano grazie al talento spontaneo, non coltivato, cioè grazie a coloro che in cantina o a casa loro producono materia sonora senza neanche sapere quali note stanno suonando o che ruolo grammaticale hanno in quel frangente. Mi viene in mente lo straordinario ed unico Jimi Hendrix, pietra miliare del chitarrismo elettrico rock. Una cosa è certa: lui non aveva bisogno di laurea; non l’avrebbe mai voluta così come la comunità non sentiva la necessità di laurearlo. Non capisco, invece, perché colui che oggi in un conservatorio o altro centro di formazione parificato, stia approfondendo quel periodo del chitarrismo e quel fenomeno sia esentato dall’affrontare anche Sagreras o Barrios. Troppo impegnativo? Scapperebbero dalle classi? Forse c’è il timore che senza questi iscritti i conservatori vengano chiusi come le province? Sicuramente avremmo qualche laureato in meno. Sono fiducioso che aumenterebbero le possibilità di contribuire all’evoluzione del linguaggio di questa musica.
Alla fine dobbiamo affidarci al buon senso e alla capacità didattica dei singoli docenti, che, per fortuna, esistono ancora e riescono a far bene anche in istituzioni malconce. Peccato che non li troviamo riuniti in un unico luogo. Paradossalmente, per aspirare ad una buona formazione, si dovrebbe studiare pianoforte e tastiere nel conservatorio di una città, teoria e solfeggio in un’altra, storia della musica e armonia in un’altra ancora.
Ecco perché mi è venuta voglia di lavorare alla creazione di un’accademia musicale che veda docenza e competenza legate da un criterio formativo e che fondi le sue basi sui cardini acclarati e confermati della didattica classica coniugata costantemente al linguaggio odierno, con approfondimenti anche per quel che riguarda il fenomeno manageriale dell’industria musicale; che affiancandosi e intersecandosi alle attività di palco, finisce col determinare buona parte dello sviluppo culturale del paese».
Qual è il suo attuale pensiero a tutela del teatro e dei lavoratori dello spettacolo in questa gestione di piano pandemico covid?
«Abbiamo scoperto qual’ è la considerazione sociale che ricopriamo. Quasi nulla. Siamo come il così detto “superfluo”. Il vero “superfluo”, i preziosi, i beni di lusso, hanno avuto, grazie al covid, una crescita notevole. È aumentato il divario tra le classi. Chi si è arricchito ha sicuramente celebrato il suo status comprando beni di lusso ed altro, non certo finanziando la cultura, cioè un bene comune che andrebbe preservato e incentivato da chi ci governa. Ma come dicevo, la nostra categoria langue. Forse non muove sufficienti soldi da indurre un ministro della cultura ad azioni più coraggiose.
C’è stagnazione.
Andando avanti così ci ritroveremo sicuramente in arretratezza; secondo alcuni più adulti di me, questa è presente già da un bel po’. I direttori dei conservatori, ad esempio, erano personalità di spicco dell’arte musicale nominate dal ministero, possibilmente compositori (la qualifica più elevata del percorso di studio) e legati in qualche modo al territorio di destinazione. Oggi sono chiamati “dirigenti” e vengono nominati dal consiglio dei docenti. La qualifica richiesta? Sembrerebbero poco rilevanti i meriti artistici. Probabilmente l’abilità sta nel non scontentare i docenti che li hanno votati. Quando la guida viene eletta dai guidati, l’autonomia della sua azione è quantomeno dubbia. Sono certissimo che qualcuno avrà svolto o stia svolgendo con coscienza il proprio compito nel dirigere la formazione nel metodo più opportuno, cioè a vantaggio degli studenti. Non sono altrettanto sicuro che questo favorisca la sua rielezione».
Lei crede che la musica possa salvare e riabilitare la vita delle persone?
«Todorov ci dice che la bellezza salverà il mondo. Quando anche chi si propone di governarci si accorgerà che questo è sempre avvenuto e continuerà miracolosamente ad avvenire forse nelle nostre comunità cambieranno un bel pó di cose.
Uno scienziato americano, Daniel Willingham, ha pubblicato uno studio condotto su 159 studenti di una scuola elementare tedesca per testare le capacità formative della pratica musicale. Il risultato?
A distanza di un anno si è avuto un incremento del 90% dell’intelligenza verbale e logica, la riduzione del 73% di atteggiamenti scorretti e/o alterazioni del comportamento sociale, nonché un evidente aumento della neuroplasticità misurata durante l’attività di realizzazioni sonore.
In alcune realtà socialmente martoriate della nostra penisola, dove a causa di inquinamento o indigenza culturale i numeri elencati hanno tendenza opposta, la pratica musicale per i più piccoli risulterebbe una cura efficacissima è necessaria. Troppo oneroso? Non credo. Queste azioni potrebbero sanare anche altri mali».
La musica fa crescere i pomodori. Il suono, le piante e Mozart: la mia vita in ascolto dell’armonia naturale; ci parli di questa sua pubblicazione.
«Insieme ad Angelo Carotenuto, giornalista e scrittore, abbiamo stilato questo libro di facile lettura. Tra le righe che riguardano alcuni avvenimenti della mia vita, della carriera lavorativa, delle mie teorie sull’armonia, dei test sul latte di alcune mucche, della vigoria delle piante di pomodoro al suono di composizioni mozartiane, emergono tanti indizi per riconoscere autonomamente, qua e là, il potere salvifico che la musica possiede.
Insomma: viva la musica».