Morti bianche: una strage senza fine
Paolo Casiraghi, Alessandro D’Andrea, Adriano Scandellari, Vincenzo Garzilli, Vincenzo Pisano e Pavel Petronel Tanase.
Sono i nomi dei sei uomini che hanno perso la vita nell’esplosione della centrale idroelettrica di Suviana. Nomi che non dobbiamo mai dimenticare perché non sono numeri sostituibili, ma uomini con una vita propria fatta di affetti e di sogni.
In Italia dall’inizio dell’anno sono morti quasi duecento operai, mentre svolgevano le loro mansioni sul proprio posto di lavoro
Morti bianche
vengono definite poiché sono state causate da un evento imprevisto che non ha niente a che vedere con una responsabilità umana dell’incidente. Ma di bianco, il colore del candore e dell’innocenza, non hanno niente, piuttosto bisognerebbe chiamarle morti grigie, in quanto il grigio è indefinito, non né bianco né nero, così come è sempre la causa di queste morti.
Non c’è mai un colpevole diretto, non c’è mai una vera assunzione di responsabilità da parte dei dirigenti e di chi avrebbe dovuto mettere in atto tutte le procedure di sicurezza in modo da garantire condizioni di lavoro adeguate.
Invece è sempre colpa del macchinario che ha funzionato male, del sistema di produzione che si è inceppato, ma mai di una mano umana.
Morti bianche
che sono diventate dei veri e propri “omicidi del lavoro” poiché sono direttamente collegate alla voluta inefficienza e noncuranza dei sistemi di produzione industriali e agricoli.
Gli operai sono solo insignificanti, piccole parti di un più grande meccanismo regolato in modo rigido da ferree regole economiche alle quali oramai è pressoché impossibile derogare. I profitti reggono l’intero sistema di mercato all’interno del quale non c’è posto per gli operai come esseri umani da tutelare.
Sono solo bulloni di ingranaggi che non possono permettersi di fermarsi, nemmeno quando le condizioni diventano pericolose: la sicurezza lavorativa di questi uomini passa in secondo ordine, la loro morte è barattata con le imprescindibili esigenze di mercato.
Morti bianche
che occupano le prime pagine dei giornali, quando accadono, commuovono milioni di telespettatori ipnotizzati davanti ai programmi che raccontano le loro storie di vita strumentalizzando il dolore, enfatizzando la tragedia umana in nome del tanto agognato quanto impietoso audience.
Morti bianche
che solo dopo pochi giorni vengono relegate in un angolino, sommerse da altre notizie ritenute più importanti, più trainanti per l’interesse generale. In questo modo l’opinione pubblica si dimentica di chi non può più fare ritorno a casa, ci si dimentica di chi ha bruciato la propria vita lavorando per il benessere di tutti.
In questa indifferenza generale, i grandi sistemi di produzione continuano a produrre indisturbati, continuano a dedicare una scarsissima attenzione alla sicurezza sul posto di lavoro, con la connivenza di un sistema politico che mostra una immediata falsa indignazione, ma che poi in realtà non se ne interessa con adeguate norme al riguardo.
Interessi politici fittamente intrecciati alle strategie economiche dei grandi colossi produttivi, costituiscono insieme un’enorme muraglia contro cui si scontrano inutilmente le esigenze e le necessità lavorative di uomini che non sono oggetti da sfruttare fino al loro deterioramento ma esseri umani da rispettare e proteggere.
Il lavoro è un diritto irrinunciabile di tutti, non può e non deve trasformarsi in una roulette russa da cui sempre più spesso non si esce vivi.
Il lavoro è un diritto basilare , tanto che i nostri padri costituenti sentirono la necessità di riconoscerlo nel primo articolo della nostra Costituzione:
“l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Questo significa che il lavoro è un valore costituzionale essenziale.
Valore che, invece, viene costantemente svilito da tutte queste intollerabili morti bianche. Valore che viene raggirato da questa colpevole mancanza di attenzione per le condizioni incerte in cui sono costretti a lavorare ogni giorno, migliaia di individui.
Per Marx il lavoro stava alla base della Storia in quanto esso è creatore di civiltà e di cultura. Il lavoro è “manifestazione di libertà”.
Una libertà che diventa dignità umana e conseguente identità individuale poiché entrambe conferiscono gratificazione personale e realizzazione in ambito collettivo.
I nostri nonni ripetevano spesso che “Il lavoro nobilita l’animo”.
Parole che molti attribuiscono a Charles Darwin, ma che al di là della loro origine, sottolineano l’importanza che il lavoro ha sempre avuto per ogni essere umano poiché l’affermazione personale passa anche attraverso la professione, non importa se sia prestigiosa o remunerativa, l’importante è che attribuisca un ruolo nella società e che sia anche uno strumento che permetta di definire una reale identità di individuo.
Ma dov’è finita la sacralità del lavoro?
Nei putridi meandri in cui sguazzano le moderne logiche di profitto che fagocitano ogni alito di vita.
Mentre queste impietose morti bianche continuano inesorabili a marchiare di nero la lucente quanto fragile impalcatura su cui abbiamo innalzato questa nostra società.