Cultura

Mastro don Gesualdo oggi: la logica della roba da virtù a peccato

«Virtutem a sanguine traho», «Dal sangue ricavo il potere»: è il motto della famiglia Trao, della quale fanno parte alcuni dei personaggi principali di uno dei romanzi più importanti della letteratura moderna italiana e siciliana: il “Mastro don Gesualdo” di Giovanni Verga.
Quello stesso motto è un vero e proprio paradosso se si pensa che una colpa venga rivendicata come un fatto di distinzione per godere di privilegi.
È da queste prime considerazioni che parte un’interessante chiave di lettura del romanzo, proposta dal professor Giuseppe Langella – docente a contratto di letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore – in occasione del seminario autunnale organizzato dalla MOD (Società italiana per lo studio della modernità letteraria) tenutosi al Monastero dei Benedettini di Catania il 10 novembre scorso. Ve la proponiamo a nostra volta, con ulteriori considerazioni, poiché dimostra la forte attualità di questo romanzo.
Don Filippo Margarone, anch’egli personaggio della vicenda sostiene, al contrario del motto sopra riportato, come la virtù stia nel merito, non in un titolo nobiliare. Virtuoso, secondo lui, è chi sa progredire nella scala sociale facendo crescere il proprio patrimonio senza privilegi ereditari: visione che si addice perfettamente alla famiglia Motta, composta da fornaciai e muratori (instancabili lavoratori), di cui fa parte Gesualdo, il protagonista che proprio in riferimento alla professione familiare si viene attribuito l’appellativo “Mastro”; la stessa visione, dall’altro lato, si contrappone agli ideali della famiglia Trao, che vanta origini prestigiose e aristocratiche e che, allo stesso, tempo proprio come tutta la classe nobiliare del tempo, sta subendo una forte decadenza a favore di un ceto borghese in accelerato sviluppo.
I Trao, in virtù delle loro origini, non sono disposti a scendere a compromessi, non hanno intenzione di sporcarsi le mani per guadagnarsi da vivere: rispettano la figura di Gesualdo chinandogli il capo, non per la persona quanto per “la roba” che egli possiede.
Campare di rendita è il sogno di don Diego Trao.
Di contro, appunto, l’etica del lavoro di cui si fa paladino il protagonista, che ci viene presentato come il self-made man che si lancia tra le fiamme e prova a spegnere l’incendio appiccatosi in casa Trao: quella è casa sua, lì c’è tutto il lavoro di una vita, tutta la roba che va protetta e salvata.
Nella Sicilia del primo Ottocento si assiste ad una gara per aggiudicarsi le terre del demanio: nel romanzo Gesualdo ha le mani in pasta dappertutto, riesce a farsi strada su qualsiasi fronte e per questo la sua roba si incrementa sempre più. Di contro, i fratelli di Bianca Trao, nonché sua sposa, tengono al fumo. L’idea di guadagno e di salvaguardia del patrimonio sono concetti a loro estranei.
I borghesi conoscono le difficoltà della vita, tengono alla sostanza delle cose: il romanzo ci parla proprio di questo, della loro ascesa sociale.
Da qui la forte attualità del romanzo: Gesualdo è la perfetta immagine dell’imprenditore moderno, che si vede, però, ostacolare ed arginare l’ascesa.
Parafrasando una frase del Marchese de Mari: il mondo è adesso di chi ha denari, il fumo è buono soltanto in cucina.
È pur vero, però, che in perfetto stile verghiano, secondo la filosofia dei vinti, nel finale del romanzo la roba ritorna a coloro a cui era stata sottratta: i nobili. È il protagonista a decadere, l’attenzione si sposta sul suo declino, in contrapposizione alle follie evoluzionistiche, positivistiche e naturalistiche sviluppatesi all’epoca della prima stesura (1888). Come Manzoni nel “5 Maggio” Verga si chiede, guardando al tragico epilogo, se quella di Gesualdo “fu vera gloria”, vera virtù.
Peccato, dunque, non virtù: l’avidità del protagonista viene maledetta, in nome della nemesi del personaggio epico: la maschera tragica già presente ne “I Malavoglia”.
Gesualdo cerca la felicità, la spera, ma nemmeno nel momento del “trionfo” riesce a sperimentarla. Anzi, più si arricchisce e più diventa acido, astioso, invidioso e rabbioso… in nome della religione della roba. La stessa roba, a cui quell’uomo ha dedicato l’intera esistenza, adesso lo logora provocandogli la morte, privandolo degli affetti a favore dell’interesse economico.
L’aquila del Caucaso che si ciba quotidianamente del fegato di Prometeo è, in questo quadro, il palazzo del duca di Leyra, che divora il “fegato” di Gesualdo come un cane rabbioso.

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