Eccellenze

Maria Chiara Pizzo: il lino come atto di memoria e visione

Non un tessuto, ma una memoria: così si presenta il lino nel progetto di Maria Chiara Pizzo a Noto, fragile e tenace come una pergamena sopravvissuta al tempo. Ci sono storie che non si leggono, ma si indossano. Che non si raccontano, ma si seminano. E c’è un luogo, Noto, barocca e nobile, pietrosa e agreste, dove il gesto antico del filare torna ad avere la dignità di un atto culturale, non più folklore, non ancora industria. Just Noto, più che un marchio, sembra un’affermazione: solo Noto poteva generare un gesto così radicale. Maria Chiara Pizzo, sarta-modellista e anima del progetto, compie un’operazione che somiglia a una restituzione: riporta la Sicilia a sé stessa attraverso un filo dimenticato, il lino. Il suo atelier, spazio di tessitura e visione insieme, ospita non solo capi su misura dal disegno sobrio e dalla consistenza austera, ma anche una memoria personale che si fa repertorio collettivo: Maria Chiara conserva ancora l’intero corredo in lino dei suoi bisnonni, decorato con motivi greci e bizantini. Frammenti di una civiltà tessile che, in quel sud-est assolato e colto, sopravvivono come segni tangibili di un sapere sommerso, capaci ancora di orientare lo sguardo. Non è nostalgia, ma un atto di custodia. La stoffa non è più solo tessuto, ma documento. È curioso: ciò che oggi chiamiamo “tessile” ha smarrito ogni contatto con la terra. Il cotone viaggia, il poliestere galleggia, il cashmere si traveste. Il lino no: il lino, come la lingua madre o la preghiera in latino, esige fedeltà, clima, lentezza. È il tessuto che più si avvicina all’archeologia: ogni fibra contiene una data, ogni trama una genealogia. In Sicilia, dove fino al XIX secolo si contavano oltre dodicimila telai, la tessitura del lino era gesto quotidiano e rituale, matrice di identità e sopravvivenza. Dopo l’Unità e le guerre, quella cultura si dissolve. Maria Chiara, come certi artisti che non dipingono ma scavano, si china su questa assenza come su una rovina da interpretare. Il suo laboratorio, nato a Noto ma nutrito di relazioni artigiane con l’Italia intera, è il preludio a un gesto più audace: la rinascita della coltivazione del lino in Sicilia, a settant’anni dall’ultimo campo. Un’azione che ha del surreale e dell’artistico, come certe performance di Giuseppe Penone che pianta alberi dentro i musei. Sostenuta dal Linificio Nazionale di Bergamo, memoria lombarda che incontra le zolle siciliane, e dalla complicità dell’hotel Corte del Sole, l’impresa si fa campo e visione. I semi, provenienti dalla Normandia, sono semi di futuro innestati in una memoria che ancora germoglia. L’approccio di Maria Chiara non è revival, ma attivazione. Ogni fibra, nel suo lavoro, agisce come frammento vivo, capace di incrinare la linearità del tempo e rendere presente ciò che sembrava perduto. I capi di Just Noto non sono evocazioni, ma oggetti-soglia: raccolgono una memoria che riemerge nel quotidiano, aprendo spazi di senso imprevisti. Come le opere di Maria Lai, anche questi abiti cuciono relazioni invisibili tra corpo, paesaggio e linguaggio, sottraendosi alla voracità del consumo per restituire durata, densità, ascolto. Ma ciò che davvero sorprende è la capacità del progetto di generare un nuovo alfabeto della materia. Il lino, oggi, non ritorna: si trasforma. Non come reliquia, ma come forma attiva, capace di ridefinire i confini tra agricoltura, artigianato e arte. La semina non è solo l’inizio di una coltura, ma l’affermazione di una visione: un gesto che incide il paesaggio come un segno plastico, da leggere con la stessa attenzione riservata a una scultura ambientale. Ogni solco nel terreno diventa una linea di senso, ogni germoglio una possibilità formale. Non sappiamo cosa ne sarà di questa sperimentazione, ma anche il lino, per nascere, ha bisogno di un’umidità precisa e di un terreno esatto. Forse l’identità culturale funziona allo stesso modo. E allora, quel campo, oggi solo disegnato a margine di una strada siciliana, somiglia a un’installazione concettuale: un’aratura che è anche un atto poetico. Un tessuto che, prima di coprire, scopre.

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