L’Università davanti al grido del cuore umano
Notizia di un mese fa quella della studentessa 19enne dello IULM che si è tolta la vita nei bagni della prestigiosa università milanese, di cui la stampa nostrana si è occupata a livello prettamente cronistico, o tuttalpiù elargendo giudizi abbastanza superficiali e poco discreti nei confronti della sconosciuta storia personale della ragazza, secondo il parere di chi scrive. Aveva lasciato un biglietto: “Ho fallito negli studi e nella vita”.
Notizia passata ancor di più in sordina, ma paradossalmente più ricca di elementi, quella sul suicidio di una ragazza di 27 anni della Federico II di Napoli: conosciamo il nome, Diana Biondi; sappiamo che era prossima alla laurea in Lettere… o almeno così aveva detto ai suoi genitori e parenti. In realtà le mancava un ultimo esame, quello di latino, ma non ha avuto il coraggio di dirlo a nessuno. L’ultimo sms al papà, il 27 febbraio scorso: “Non posso parlare”. A seguire la denuncia ai carabinieri. Due giorni dopo, il ritrovamento del corpo senza vita a Somma Vesuviana: Diana si è lanciata nel vuoto, in un dirupo vicino ad un ristorante.
Davanti a queste notizie, davanti a queste due storie, così diverse ma così uguali, i commenti potrebbero essere infiniti. Allo stesso tempo, però, le frasi faticano ad essere formulate; prima ancora bisognerebbe trovare le singole parole adatte.
Si vorrebbe dire qualcosa (o scriverla, in questo caso) ma contemporaneamente il rischio è quello di pensare che ne verranno fuori parole fini a se stesse. Parole in più o parole in meno.
Il dramma, purtroppo, rimane: non si tratta dei primi due casi di suicidi “per” (intendibile come “a causa di”) l’Università; la speranza è sempre quella che siano gli ultimi, e non se ne aggiungano più.
Intanto, però, la Realtà è (anche) questa; un tentativo di giudizio è necessario, da parte di tutti… e non se ne può formulare uno se non partendo dalle fondamenta dell’esperienza che accomuna queste due storie: l’Università e il suo ruolo, in origine e oggi.
Quando nel XII secolo nacquero, le Università erano pensate come associazioni di studenti e professori uniti dalla passione per la conoscenza, per affrontare insieme la ricerca del significato e della verità delle cose, e desiderosi di contribuire a una costruzione comune. Quello delle “quaestiones et responsiones”, cioè delle domande e delle risposte, era proprio uno dei metodi privilegiati: in alcuni momenti dell’anno si organizzavano dibattiti su qualsiasi argomento, in cui erano i maestri e i loro assistenti a dover rispondere alle domande degli studenti su qualunque argomento esse vertessero: politica, diritto, teologia e altro ancora.
Inoltre, l’università si chiamava in due modi: “Universitas” e “Studium”.
Universitas perché vi era il tentativo di capire il nesso tra il particolare studiato e l’universale, in una ricerca condotta da docenti e discenti; Studium perché nasceva dalla passione, dall’amore al Vero e alla Realtà.
Facilissima una prima constatazione: oggi non è per niente così (eppure non era forse il Medioevo l’epoca più “buia” della Storia?).
Dalla riforma del 2004 l’Università costringe gli studenti ad essere meri contenitori di nozioni che vanno a dare gli esami come se stessero andando al supermercato: il piano di studi di una carriera sembra essere diventato una lista della spesa composta solo da beni di prima necessità, da avere in frigo e/o in dispensa; si assimila tutto come se si bevessero tanti bicchieri d’acqua naturale. Senz’altro importanti per “sopravvivere”, ma insapori.
Il tutto sembra far parte di una gara in cui vince chi è più veloce e più bravo a buttar giù, tanto da venire prontamente elogiato (vedi Carlotta Rossignoli, su cui non ci soffermeremo)…
E a chi perde? Cosa succede agli “sconfitti” di questa gara? Perché l’Università e (di conseguenza) la vita dovrebbero essere una gara? Una gara contro chi? Contro cosa?
Come già scritto, davanti al dramma di questi avvenimenti nessuno è rimasto indifferente fino in fondo (come si può?), ma i presunti giudizi che si leggono negli articoli di giornali e di blog, salvo casi eccezionali, sembrano avere la pretesa di dare risposte a domande senza fine. Dietro alla presunzione vi è solo il rischio di superficialità e non potrà mai esserci un giudizio.
Può bastare l’appello del rettore della Federico II, Matteo Lorito, che di fronte alla vicenda di Diana ha esortato gli studenti a “segnalare i casi di malessere”? Possono bastare i genitori, gli amici, i colleghi, i professori… e (seguendo una voluta climax discendente di “prossimità”) il rettore ad esortarci ad un’apertura, alla confessione della nostra esigenza prima (ed ultima)?
Perché, senza voler essere, appunto, presuntuosi, è proprio di questo che si tratta.
Come può apparire fallita una vita a diciannove anni? Perché ci si dovrebbe sentire dei “falliti” se si va fuori corso?
Dietro a tutte queste domande sembrano voler emergere con forza le seguenti: che senso ha la nostra vita e quella di queste ragazze? Perché vale la pena vivere?
Non può essere di certo un modello di università rispetto ad un altro a risolvere il dramma della vita, di un cuore che questo dramma lo grida incessantemente.
Quello che si può fare è riguadagnare la natura originale del luogo universitario, quella di cui si è parlato sopra: non un luogo di performance, quanto un luogo di condivisione della ricerca del senso delle cose… una ricerca da condividere ed affrontare nell’incontro con maestri, nella costituzione di una coscienza davvero libera.
Nel concreto: appartenere ad una compagnia che non lasci indietro nessuno, da cui nasce la speranza, per noi stessi e per quelle ragazze.