Spettacoli

L’isola sconosciuta, ovvero Candido alla ricerca della Sicilia

È difficile che tra colleghi, specie se docenti universitari, scattino le ‘affinità elettive’ di goethiana memoria: è accaduto invece tra me, storica e specialista di Storia della Sicilia, e il pedagogista/drammaturgo/regista/attore Ezio Donato a proposito della sua pièce ‘L’isola sconosciuta ovvero Candido alla ricerca della Sicilia’ in scena alla Sala Verga del nostro Stabile e dedicata principalmente, ma non soltanto, ai giovani studenti delle scuole catanesi.
Ad apertura di sipario troviamo un uomo che tira fuori dal pozzo una bella ragazza: Trinacria con tutte le sue tre iconiche gambe (una sottobraccio). È un giovane dal nome emblematico: Candido. Si tratta del protagonista del breve romanzo (del 1759) di Voltaire?
Quel Candido che fugge su una nave attraversando l’Atlantico e andando incontro a strane disavventure (I cannibali Orecchioni, il paese di El Dorado…) e che torna in Europa per trovare infine pace e serenità coltivando, insieme alla sua bella Cunegonda, l’orticello della sua fattoria?
No, non è l’interprete del saggio ironico, sarcastico e anticlericale di François-Marie Arouet contro la coeva civiltà europea, ma soprattutto in opposizione all’ottimismo di Leibniz e alla sua pretesa di “vivere nel migliore dei mondi possibili”.
E neanche è il “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia” che Leonardo Sciascia pubblicò nel 1977, il cui protagonista nasce nella notte dello sbarco degli alleati in Sicilia e cresce libero, spontaneo, sincero e senza pregiudizi. Affidato poi a un arciprete che finirà con l’iscriversi al PCI, partito da cui lo stesso Candido verrà espulso, fugge dall’isola con la sua amata per finire a Parigi. Un racconto satirico, intriso di anticlericalismo, contro l’Italia del dopoguerra, in cui l’autore fa spesso riferimento ‘mutatis mutandis’ al modello francese.
Il Candido di Ezio Donato è apparentemente un sempliciotto molto più vicino al nostro Giufà che secondo alcuni, deriverebbe da un personaggio esistito agli inizi dell’XI secolo d.C. nell’odierna Turchia: il Maestro Nasreddin che nell’area culturale araba si sarebbe poi diffuso con il nome di Djeha o Jusuf. Abbiamo, così il Diuha del Marocco, dell’Algeria, e della Tunisia, il Si’ Dieha dell’Africa del Nord, il Ben Sikran, eternamente in cammino, delle zone sub-sahariane.
Giufà è un ragazzo intelligente e stupido, furbo e credulone, onesto e disonesto, triste e allegro, almeno in quella tradizione giudaico-spagnola che si innesta poi nella tradizione siciliana. Privo di qualsiasi malizia, ma consigliato dalla mamma una donna molto furba che aiuta il figlio sciocco e sa come trarlo d’impaccio, il nostro Giufà ‘mediterraneo’, dunque è semplice ma sa diventare astuto: nel Corano si dice “Dio ha usato l’astuzia. Dio è il migliore di coloro che si servono dell’astuzia per giungere al loro fine”.
Nato come antica tradizione orale è arrivato in Sicilia nella forma scritta tardi, tra Ottocento e Novecento, per merito del medico/etnologo palermitano Giuseppe Pitré che pubblicò le avventure di Giufà raccolte nell’isola appunto attraverso la narrazione orale.
Tornando allo spettacolo di Donato, il nostro Candido/Giufà, prendendo l’avvio dall’incontro con Trinacria e, in seguito con ‘la donna delle pulizie’ del castello del re, comincia a ‘narrare’ miti, favole e racconti popolari poco conosciuti, specie dalle generazioni più giovani.
È un’eredità immateriale questa, che corre il rischio di perdersi; un patrimonio di cui riappropriarsi, una sorta di ‘scavo archeologico’ alla ricerca delle proprie origini e di noi stessi: “il destino è nelle origini”.
Alla fine Candido si renderà conto che l’isola sconosciuta è proprio la sua Sicilia “riscoperta”:
“Io sono nato in Sicilia – diceva Pirandello – e lì l’uomo nasce isola nell’isola e rimane tale fino alla morte, anche vivendo lontano dall’ aspra terra natia circondata dal mare immenso e geloso”.
Nelle sue note di Regia Ezio Donato ha voluto replicare con forza il rischio dei giovani di non saper compiere questo cammino all’inverso, assolutamente necessario per conoscere e conoscerci ridando merito al passato, tra storia e identità, per poter sviluppare il giusto ‘orgoglio di appartenenza’ a quest’isola che nei secoli è stata luogo di incontro di civiltà e culture diverse.
In questa direzione – conclude il regista/autore – il teatro diventa un ottimale strumento pedagogico; “non solo intrattenimento e arte dell’effimero”, ma comunicazione empatica di messaggi formativi “per conoscere promuovere e diffondere una grande eredità”.

Foto di Antonio Parrinello

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