L’influenza del verismo verghiano sul dialetto teatrale
Pensare oggi al teatro dialettale siciliano fa sorgere nella mente un collegamento immediato al verismo di Giovanni Verga, sempre contrario ad adoperare le parole dialettali sia nei suoi romanzi che nel teatro. Eppure voci e frasi dialettali abbondano, dall’altra parte, ora riprese tali e quali, ora più o meno adattate, obbedendo a esigenze artistiche e magari a intenzioni teoriche varie. Si tratterà ora solo di qualche vocabolo di colore locale, ora di una prospettiva di frasi e di vocaboli distribuiti secondo le classi sociali che l’autore vuole raffigurare, ora di una trasposizione in lingua della maniera dialettale di pensare e di parlare. Il giudizio di Guido Nicastro è esemplare: «Eppure il teatro siciliano è stato un episodio niente affatto trascurabile nella storia culturale dell’Italia fine-Ottocento e primo-Novecento. Si pensi oltre agli scrittori che si cimentarono sulla scena, alla schiera di validissimi attori che si imposero». Per quanto riguarda oltremodo il dialetto così afferma Gabriella Alfieri: «In un congresso sulle “nuove forme del dialetto” un intervento sull’italiano letterario, seppur quello regionalizzato di Verga, potrebbe sembrare obsoleto. Può tuttavia trovare qualche giustificazione di natura metodologica potrebbe essermi concesso dal tentativo di rileggere con voi l’autore dei Malavoglia e di Cavalleria rusticana come traduttore e interprete dei suoi personaggi dialettofoni». È vero. Ancora oggi si può discutere benissimo sull’apporto del Verga alla trasformazione del dialetto e alle sue conseguenze. Ecco cosa affermava il grande scrittore in una lettera al suo amico francese Edouard Rod: «Il mio è un tentativo nuovo sin qui da noi, e tuttora molto discusso, di rendere nettamente la fisionomia caratteristica di quei contorni siciliani nell’italiano, lasciando più che potevo l’impronta loro propria, e il loro accento di verità». Ciò è ben interpretato dalla citata Alfieri che dice: «Verga pensasse a parlati reali da far agire mimeticamente, non da autore ventriloquo che presta la sua voce a delle marionette, ma da narratore popolare pienamente immerso nella comunica protagonista del racconto, di cui condivide linguaggio e cultura. Parlare di Verga “traduttore” dunque significherà alludere a una traduzione implicita, tutta interna ai testi, incentrata su stile sintattico, dimensione idiomatica e moduli concettuali». Molto si è discusso su quali elementi fondanti il Verga sia riuscito – specialmente nei Malavoglia e in Mastro don Gesualdo – a costruire le strutture iperlinguistiche e antropologiche: proverbi, modi di dire, nomignoli, tratti del codice gestuale, “pecchi” vizzinesi ed altre forme, in cui lo scrittore si cala grazie alla loro dimensione etnoculturale di schemi comunicativi. Basti pensare a ‘Ntoni, Bastianazzu, zio Crocifisso, eccetera. Ricordiamo che nella lettera di presentazione a Salvatore Farina, quale premesse alla novella “L’amante di Gramigna”, Verga sostiene con vigore le sue tesi sul come agirà nello scrivere successivamente: «L’autore di un romanzo – egli afferma – deve prendere come soggetto un documento umano, analizzarlo con scrupolo scientifico, “utilizzando le parole semplici e pittoresche della narrazione popolare». Il punto fondamentale è questo. Insomma, occorreva dare un certo contenuto all’etichetta “teatro verista”, assorbito di grandi passioni elementari, con forte aspirazione al canto e al melodramma, ma anche ad una schietta risata, come sarà successivamente. La prima opera da esaminare è senza dubbio “Nedda” nella quale la crisi tematico-linguistica dello scrittore catanese comincia i suoi esordi. I critici fecero un confronto tra questa novella e quelle di George Sand, nota scrittrice francese, la quale nel descrivere un genere di letteratura campagnola riferiva in corsivo le parole dialettali. Ciò non succede in Verga, perché come dice il Luperini sul linguaggio esso è: «Ancora oscillante fra fiorentinismo di maniera e primo approccio ad un modo popolare e antiletterario d’espressione narrativa». Con questa novella il Verga sicuramente non ha offerto segni di grandi cambiamenti, però in alcune espressioni ed in alcune parole ritroviamo quello che il dialetto verghiano ha offerto successivamente». Gli stessi nomi “Nedda”, derivato da “Sebastianedda”, ovvero “Sebastianella”, e lo stesso “Janu”, derivato da Sebastianu, ed infine il soprannome “varannisa”, cioè abitante di Viagrande (paesino vicino Catania) ed infine la canzone di Janu e il suo “Salutamu”, a coronamento di quella voltontà dell’autore di scrivere in italiano, ma con riferimenti linguistici veristici oltretutto necessari per la storia raccontata. Anche altre espressioni emergono qua e là nelle novelle, per esempio, in “Jeli il pastore”, quando guarda il cielo e chiame le stelle la “puddara (pollaio)”, cioè le Pleiadi; oppure in “Rosso Malpelo” (dal proverbio catanese pilurussumalupilu), e anche il padre del protagonista era chiamato mastro “Misciu”, cioè Domenico. E così via.
Ma è nei “Malavoglia” che Verga riesce a trasformare le parole dialettali in un linguaggio del tutto nuovo, antiletterario per natura, ma molto profondamente incisivo. Per mantenere nella scrittura le caratteristiche della lingua orale Verga utilizza molti espedienti. Sceglie un lessico elementare e ripetitivo, dove abbondano parola, espressioni e similitudini tratte dal mondo dei pescatori (i sassi della strada vecchia, barche sull’acqua, tegole al sole, ammarrata, paranze, ecc.), riferiti a luoghi dei vari personaggi del luogo (Trezza, Ognina, Aci Castello), oppure fa uso di “ngiuria”, cioè di soprannomi, visto che lo scrittore aveva chiesto da tempo a luigi Capuana un libro dove poter cercare queste parole: Malavoglia, Piedipapera, la Longa, la Zuppidda, la Vespa, Cinghialenta, ed altri. Anche i nomi sono un chiaro riferimento al dialetto: ‘Ntoni, Mena, Bastianazzo, zio Crocifisso, Vanni ed altri. Verga a completamento della sua opera di adattamento del dialetto in lingua parlata usava determinate sentenze (da che mondo è mondo), oppure i proverbi (il buon pilota si conosce alle burrasche, donna di telaio, gallina di pollaio e triglia di gennaio), già consultate nell’opera di Giuseppe Pitrè. Ma, soprattutto, Verga, organizza costrutti sintattici con periodi brevi in cui prevale la coordinazione e somma di congiunzioni, impiegando espressioni che per essere comprese bene hanno bisogno di capirne il contesto e usa, di frequente, il pronome “che” (tipico del dialetto siciliano). In due lettere al Cameroni ed al Torraca, Giovanni verga spiega così il suo operato e la sua particolare visione sul come scrivere: «Il mio solo merito sta forse nell’avere avuto il coraggio e la coscienza di rinunziare ad un successo più generale e più facile, per non tradire quella “forma” che sembrami assolutamente necessaria tentativo che in Italia può passare per disperato di farli parlare con la loro lingua inintelligibile a gran parte degli italiani, almeno di dare la fisionomia del loro intelletto alla lingua che essi parlano… se dovessi tornare a scrivere quel libro lo farei come l’ho fatto…». E non potrebbe essere altrimenti, perché il suo linguaggio ha altra vivacità e freschezza, perché più vicino alle sue sorgenti ingenue, proprio come il dialetto, che si rifugia in espressioni popolari e popolareschi strettamente collegati nelle più variopinte espressioni della gente comune. Il pensiero di Verga è sempre sul più uguale “formalismo” linguistico imponentesi “come regola di buon gusto” per esprimere una sempre maggiore “uniformità di sentimenti e di idee”. Unicamente preoccupato di poter risolvere apparenti difficoltà tecniche, lo scrittore non si chiedeva fino a qual punto avrebbe potuto aderire con lirica commozione ai “bisogni fittizi” delle categorie sociali più elevate. Ma, oltre a mastro don Gesualdo (che vedremo successivamente), gli altri romanzi del ciclo non vedranno mai la luce. Fu virtù del Verga quella di saper cogliere immediatamente le leggi della vita degli umili individuandoli nel loro linguaggio primordiale (…che pareva fossero riuniti i buoi della fiera di sant’Alfio…) e poi subito un termine dialettale messo in corsivo (…era andata ad aspettare sulla “sciara”), e via discorrendo. Ciò fa capire ai lettori siciliani che il tentativo di Verga di cogliere le belle espressioni dialettali e trasformarle in un linguaggio comune a tutti, è la prova, che l’influenza del suo verismo è quanto mai sintomatico nelle prove successive, tanto che in teatro, pur contro il parere dello scrittore, saranno rappresentate in dialetto siciliano, e catanese, in particolare. Ed è proprio la “Cavalleria Rusticana” che si adatta perfettamente ad una traduzione in dialetto, perché già ci sono tutte le caratteristiche verbali per essere tradotta dagli attori dell’epoca, specialmente da Giovanni Grasso. Famoso è il passo in cui compare Alfio sfida comare Turiddu (avete comandi da darmi –matadaricumanni) e la risposta (nessuna preghiera-nunddapreira). La dialettalità del Verga è una creazione personale di un mezzo idiotico, cioè “proprio” ad esprimerla vita della provincia catanese nella realtà che Verga le diede, quale egli la vide e sentì. Già nel 1919 il critico Luigi Russo era convinto che una delle ragioni della poca simpatia dei lettori verso quasi tutta la sua opera fosse la dialettalità della sua arte, di contenuti, e di lingua, che è senza dubbio il perno principale della sua stessa poesia, che racchiude in sé lingua-istituzionale e lingua-sociale. Ma mentre in “Nedda” e in “Vita dei campi” Verga non raggiunge ancora la “mitificazione” del dialetto, quale “seconda lingua” artistica, egli la raggiungerà proprio nei “Malavoglia”, dove il parlato dei personaggi ridurrà fortemente l’intervento dell’autore, in una lingua chiamiamola così “ricordata” nella sua giovinezza a Catania ed a Vizzini che si libra al di sopra dei personaggi descritti e diventa epica. Esaminiamo i “Malavoglia” nei termini e nelle locuzioni. Per esempio “gente di mare” è uno dei molti sicilianismi nascosti nel romano e solo in pochi casi il termine siciliano, come abbiamo già visto, conserva la forma dialettale, che viene scritta dal Verga in corsivo ed è tutto limitato, perché il suo intento è quello di farsi comprendere dagli italiani da Milano a Noto e contribuire così all’unificazione linguistica, dopo quella politica. Anche il termine “zio” (da ‘u zu Cola si passa a zio Cola) è un sicilianismo, perché non si intende un grado di parentela, bensì è usato come termine di riguardo ad una persona anziana di un certo peso sociale. Anche la sintassi del parlato ha la sua efficacia: l’uso sovrabbondante della particella “ci” è uno degli artefici che rendono il tono popolare e parlato del discorso. Poi c’è l’uso del “che” corrispondente al “ca” dialettale, quello che i linguisti chiamano il “che polivalente” con significato “dato che”: “che avevano sempre avuto barche al sole”; “svegliati che sono le otto”; “comprali che ce li mangiamo subito”; e via discorrendo. Un altro peso importante hanno i proverbi citati da Verga, quasi centocinquanta in tutto il romanzo. E chi parla per proverbi non potrebbe essere che il vecchio padron ‘Ntoni, grande portavoce della tradizione e dei valori dei siciliani di quel tempo. In Verga confluirono la diffusa aspirazione ad una lingua di tono minore, e la resa della parlata dei suoi personaggi siciliani; la quale trovò la sua forma compendiata nel discorso indiretto libero, cui trasmise i propri colori regionali. Anche se nel saggio di Ettore Caccia si afferma che si può benissimo sorvolare sul discorso indiretto libero, imputandolo alla sintassi frammentaria, per una tesi impressionistica a macchia di leopardo della prosa verghiana. Del Verga siciliano si è parlato del suo periodare breve e secco, di “periodo lungo” ed a questo proposito val la pena ricordare il catanese Aurelio Navarria, che mette in evidenza i passi in cui i lunghi periodi dei “Malavoglia”, in cui proposizioni ed immagini s’infilano una dopo l’altra con nessi deboli o vaghi, con soste inattese allungamenti non previsti fino a clausole che non hanno più relazioni con l’inizio del discorso.
Passiamo ad esaminare l’altro capolavoro verista “Mastro don Gesualdo”, in cui gli effetti ed i suoi dialettali non sono una semplice cornice, bensì materia stessa del raccontare il romanzo. Il linguaggio dell’autore è povero e quindi efficace nel descrivere i luoghi in cui si muovono i vari personaggi del paesino di Vizzini in provincia di Catania. Il lessico, ovviamente, non è ricercato vi sono alcuni termini propri del dialetto catanese che conferiscono una maggiore realtà al racconto. Lo scrittore si limita a rappresentare con i termini più adatti al suo modo di “sentire” la parola senza creare enfasi per far risaltare i particolari, ma si limita (se limite si può chiamare…) ad una descrizione più oggettiva possibile.