L’elogio dell’apparenza
Essere o apparire?
Dimenticata la ben più profonda domanda posta da Amleto, che abbiamo seppellito sotto cumuli e cumuli di superficialità, è questo il dubbio che ci tormenta ogni giorno e che ci toglie il sonno, costringendoci a tribolare senza sosta pur di costruire l’immagine assolutamente perfetta di noi stessi.
Noi, come dei moderni Trimalchione, dobbiamo mostrarci per quello che non siamo per apparire sempre e comunque perfetti, belli e vincenti.
Paghi della finta versione di noi stessi, aneliamo in modo spasmodico a far parte di questa perenne “recita del mondo”, usando le parole di Pirandello, senza renderci conto che invece di conquistare la libertà di esprimere noi stessi viviamo immersi nella più grande di tutte le illusioni poiché, in realtà, siamo continuamente condizionati dagli stereotipi che ci vengono imposti inconsapevolmente attraverso i mass media e i social che ci vogliono solo gusci perfettamente lisci e senza difetti, ma vuoti e privi di identità all’interno.
Ma a noi non importa, continuiamo ad affannarci e a postare decine di foto con una smania ossessiva, sopraffatti dal terrore che se non postiamo, noi non esistiamo. La nostra interiorità da sola non basta più, non definisce la nostra identità e noi non sappiamo più chi siamo, solo ciò che appare di noi emerge con prepotenza e alla fine prevarica sul nostro Io.
Una verità che aveva già capito nel lontano ‘600 lo scrittore spagnolo Baltasar Gracian quando scriveva che:
“Ciò che non si vede non esiste”.
E noi, anime tormentate, senza sosta, dall’impulso incontrollabile di esserci a ogni costo, affidiamo la nostra immagine alla realtà virtuale che, come la fata dei nostri racconti di bambini, compie la sua perversa magia e ci assicura quella concretezza che abbiamo perduto nella vita reale.
Così le nostre esistenze assumono un valore solo quando sono sbandierate sui social. Noi, schiavi del bisogno impellente di definirle, le fissiamo in una foto, in cui dobbiamo apparire felici, in forma smagliante senza chili in eccesso e senza rughe perché fa “figo” mostrarsi senza difetti. Essi non sono permessi, sono segno di debolezza e di mancanza di carattere.
Le imperfezioni sono macchie indelebili che marchiano il nostro corpo come un’onta vergognosa e disonorevole che ci fa sentire addosso tutta la pesantezza della nostra inferiorità. Perché nell’irreale competizione ingaggiata contro tutto e tutti, non conta emergere per i propri pensieri ma solamente per la falsa bellezza della nostra immagine.
Se non siamo belli non siamo nessuno.
Se le nostre vite non sono delle cartoline lucide e colorate, non sono degne di rilievo.
Intrappolati nella fitta ragnatela che le logiche di mercato, hanno tessuto intorno a noi, non facciamo altro che elogiare l’apparenza e osannare l’illusorietà che ci propinano i social, senza accorgerci della contraddittorietà in cui siamo sprofondati: il nostro io viene percepito solamente attraverso l’apparire. La perfezione della forma prevarica e si impone con la sua ingannevolezza.
Ma queste nostre esistenze cristallizzate sui nostri profili, rischiano di annullarci, di cancellare la nostra vera profondità di esseri umani.
L’illusione che crediamo di vivere, alla fine, non ci soddisfa affatto. E’ solo una finzione
che ci rende sempre più soli, che ci rinchiude, ogni giorno di più, nelle nostre prigioni di solitudine, in cui annaspiamo senza riuscire a riemergere. E i nostri piccoli universi, che ci siamo creati sui social, si sgretolano nella fallacia di queste immagini che dietro la loro brillantezza celano solo un vuoto divoratore.
Eppure Pirandello ci aveva già messo in guardia, quando parlando della dicotomia tra maschera e volto, e quindi tra apparire ed essere, scrisse che mostrare perennemente agli altri una maschera, per essere accettati e per conformarsi agli schemi imposti dalla società, alla fine comportava una frantumazione del nostro io, una spersonalizzazione che ci soffoca e che ci conduce verso il baratro.
E noi, oggi, perfettamente omologati alle regole imposte, siamo degli Io smarriti, insicuri e soggiogati dal continuo timore di non essere all’altezza, in una perenne ricerca di una nostra dimensione interiore che non riusciamo mai a trovare, trascinati dalla marea comune che ci impone comportamenti e pensieri. Così vaghiamo sui social alla ricerca di un’autenticità effimera e abbiamo smesso di cercare la nostra essenza più vera.
E alla fine non resta che farci una sola domanda:
“Noi viviamo veramente le nostre vite o costruiamo esistenze perfette solo per gli altri?”