Le donne afghane, ombre senza nome
Essere donna, oggi, in Iran, è una condanna a morte. Nascere donna, significa essere private, brutalmente, della propria dignità umana e di ogni diritto come individuo.
Le donne afghane, isolate nella loro terra natia, muoiono, giorno dopo giorno, vittime innocenti di un regime, quello talebano, che le ha rese invisibili, dietro ai loro burka neri, da cui fuoriescono occhi disperati, in cerca di un aiuto che solo l’Occidente può garantire.
Un passo in tal senso è stato compiuto, i primi di ottobre; con la sentenza della Corte di Giustizia Ue, con la quale è stato stabilito che le donne afghane hanno diritto di asilo, in quanto perseguitate nel loro paese. Per la precisione, è stato richiesto che, per le autorità competenti degli Stati membri, nel valutare la domanda di asilo di una donna di nazionalità afghana “è sufficiente che siano presi in considerazione il sesso e la nazionalità di quest’ultima”, considerato che le misure discriminatorie messe in atto contro le donne afghane “costituiscono atti di persecuzione”.
Per non dimenticarle, a settembre di quest’anno, l’attrice Meryl Streep, nel suo discorso all’’Assemblea delle Nazioni Unite, è arrivata a dire che “A Kabul una gatta è più libera di una donna” e che “Un uccello può cantare libero mentre una ragazza non può farlo in pubblico”
La cantante iraniana Negar Moazzam è finita più volte in carcere per aver cantato in pubblico, e l’attrice Sadaf Baghbani, per aver partecipato alla manifestazione in ricordo di un’altra ragazza uccisa, Hadis Najafi, è stata colpita con 150 pallini di piombo dalla polizia e, ancora oggi, dopo essere fuggita dall’Iran, ne porta addosso ben 147, rischiando di esserne avvelenata.
Cantare, recitare, far sentire i propri pensieri è un peccato imperdonabile, la voce della donna è una possibile tentazione per l’uomo!
Questa è l’ipocrisia con cui si giustifica l’imposizione di un divieto ipocrita, che scarica, in una perversa inversione delle parti, gli impulsi sessuali maschili nella sola e unica responsabilità della donna.
La donna afghana è colpevole in quanto donna!
Da quando i Talebani sono tornati al potere, nel 2021, i diritti delle donne sono stati totalmente annullati.
Vincolate da questo nuovo regime, le ragazze non hanno più accesso alle scuole secondarie, o all’Università. Le donne non possono più lavorare, o uscire da sole, ma devono avere sempre un accompagnatore maschio, e, ultimamente, sono stati imposti nuovi divieti che limitano i loro spostamenti e vietano loro di frequentare gli spazi pubblici.
I Talebani hanno privato le donne afghane della loro voce, le hanno rese ombre nere, senza nome.
I mariti non le chiamano per nome, ma le additano come “la casa” perché, in quanto donne, devono restare recluse dentro alle quattro mura della casa e figliare come animali da riproduzione.
Meglio però se figli maschi, quando nasce una femmina, non è mai una gioia per la famiglia.
Alle donne afghane senza nome, non è permesso essere nominate nei documenti ufficiali. Per i figli è sufficiente che sia indicato solo il nome del padre.
Ed è disonorevole che gli amici maschi del marito conoscano il nome della moglie, della madre o delle sorelle.
Annullate nella loro identità, sono state rinchiuse dentro a degli abiti informi che, come involucri, le fagocitano in una voragine da cui è sempre più difficile riemergere.
Molte giovani sono state arrestate, perché sotto al burka non portavano i pantaloni.
Nella follia maschilista, il regime impone a ogni donna di non scoprire nessuna parte del corpo, per non suscitare desideri sessuali nell’uomo.
Una visione offensiva non solo della donna, ma anche degli uomini afghani, ridotti ad animali, spinti solo dagli istinti più bassi.
Un’oppressione costante che mira ad eliminare ogni donna afghana dalla società, con una strategia persecutoria, che le ha ridotte a essere vittime di apartheid di genere, di una segregazione sessuale, economica e sociale a causa del loro sesso.
Le donne afghane subiscono ogni giorno l’apartheid di genere e non una semplice discriminazione, poiché sono costrette a vivere in gravi condizioni di disuguaglianza e di assoggettamento. Una precisa volontà sistemica di annullamento che si deve equiparare al crimine contro l’umanità.
Nello Statuto di Roma all’articolo 7, al paragrafo H viene identificato come crimine contro l’umanità “ la persecuzione contro un gruppo…inspirata da ragioni di ordine politico, razziale, etnico, culturale religioso o di genere sessuale…”
Articolo giustamente ricordato, a giugno, dal nostro ambasciatore Vincenzo Grassi, rappresentante permanente alle Nazioni Unite, durante la 56esima sessione del Consiglio dei Diritti Umani.
Noi, comunità internazionale, abbiamo il compito e il dovere di intervenire per restituire un nome a tutte queste ragazze e donne abusate. L’impegno deve essere di tutti gli Stati membri perché l’Europa non può essere soltanto una comunità economica, retta da interessi e profitti , ma anche portatrice di valori che assicurino l’inviolabilità dei diritti umani.