Cultura

La tradizione musicale siciliana: cenni storici e attualità

La musica, in qualità di strumento comunicativo, è considerata uno degli aspetti culturali ed espressione identificativa di un popolo.
Nella musica tradizionale siciliana, tale principio, trova un ostacolo di applicazione univoco nell’impossibilità di schematizzare le tipologie e definirne un itinerario storico preciso.
La Sicilia, culla di una moltitudine di civiltà, conta una tradizione culturale musicale, che risulta essere una mescolanza di eredità ancestrali, in un complesso e variegato scenario che ne determina la peculiarità
Il panorama musicale siciliano, a carattere rituale, sacramentale, propiziatorio, del quale è difficile rintracciare le origini, si distingue per le varietà espressive, canti, danze e strumenti, tipiche di una tradizione che assume connotati storico-culturali, ripercorribile tramite echi di quella tradizione folcloristica, e che trova, oggi, espressione nelle opere degli artisti contemporanei siciliani.
Il canto siciliano è retaggio di una tradizione orale, che tramandandosi in periodi storici diversi e propagandosi in territori differenti, si traduce in una grande varietà di concomitanti costumi e tradizioni.
Esso affonda le proprie radici nella cultura greca, da cui derivano gli inni sacri, in quella araba, che introdusse le elegie funebri, e successivamente in quella normanna, che influenzò l’assetto musicale introducendo la tipologia strumentale.
Da questo eterogeneo intreccio di influenze, in cui sono confluiti caratteri, motivi, e incentivi, quasi universali, sono scaturiti componimenti, e composizioni artistiche tra canto, danza e strumenti tipici.
Si distinguono tra i più noti:
“I canti del lavoro”, il cui suono veniva creato riproducendo il ritmo del mestiere scelto, come la battitura del frumento; associabile per finalità ai canti delle piantagioni, creatori del Blues;
“I canti del dolore”, privi di accompagnamento strumentale, erano dedicati ai condannati, una sorta di racconto del dolore e della sofferenza di chi va incontro alla morte o alla perdita della propria libertà a causa di una prigionia. Sono detti “i canti del Vicario o del carcerato”, riferendosi al Palazzo dei Vicari sito a Trapani e abilitato a carcere dal 1655 al 1965, affrontano il dilemma tra amore e morte, dolore e vita temi consueti e cari ai Cantastorie siciliani.
Questi personaggi creativi, provvisti di una vasta conoscenza del mondo, accompagnati da musica e danze, cantavano degli ultimi. Usando l’espediente ironico, sottolineavano la realtà, dissimulandone la veridicità e consegnando, la vita bucolica e rupestre di contadini e pastori, al mito.
Tra i pionieri di questa antica arte comunicativa, possiamo citare tra i più famosi: i catanesi Gaetano Grasso e Orazio Strano, e il nisseno Paolo Garofalo.
Infine, tra gli inni sacri, primeggiano per la sacralità dei contenuti, le Novene natalizie, cantate da musici notturni che giravano per i paesi all’imbrunire, al suono delle ciaramelle, e delle zampogne, antichi strumenti che hanno origine da leggende del mondo greco.
Una delle più interessanti è “Curteggiu de li pasturi a lui Santi Bambino Gesù”, attribuita al celebre poeta Giacomo D’Orsa.
A conferire un’impronta tipica ai canti siciliani, provvedeva l’uso di strumenti di manifattura artigianale o di uso comune:
Il Maranzano, uno strumento idiofono, annoverato tra quelli più antichi, infatti dello scacciapensieri, altro nome con cui è conosciuto, vi sono tracce nell’antica Roma e persino in Oriente a partire dal IV sec;
Il tamburello, tipicamente di uso maschile, era comune ad antiche civiltà, tra le quali i Sumeri, gli Inviti, gli Ebrei e gli Egizi. Si trovano tracce del suo utilizzo anche in raffigurazioni medievali ad opera di grandi pittori, come Giotto. L’uso orchestrale fu introdotto nel 1770 dal compositore tedesco C. W. Gluck in “Paride ed Elena”;
Il friscaletto, di origini leggendarie, è uno strumento atipico, infatti ogni esemplare presenta un proprio timbro;
La quartara, nella versione più piccola bummulu, risalente al XII sec, un recipiente per l’acqua, usato vuoto, atto a riprodurre un suono cupo.
Componente essenziale, insieme agli strumenti simbolo della cultura folcloristica, erano le danze tradizionali:
Il Taratatà, una danza eseguita, al suono del tamburello, da cristiani e mori in segno della loro pacifica convivenza;
la Tarantella Siciliana, o ballo della tarantola, un incessante crescendo di ritmo e movimento che, appunto, ricorda i gesti spasmodici dovuti al morso di questo aracnide. Di origini greco-romane, veniva danzata nelle feste pubbliche romane e durante il medioevo come rito di guarigione con poteri esorcizzanti.
Di questo particolare spettacolo, scaturito dall’unione dei tre elementi, canto, musica, danza, si fanno oggi eredi e trasmettitori vari gruppi folcloristici: da i “Canterini Etnei”, nati nel 1929, e “Il Coro degli Egadi” istituito nel 1935, ai più recenti: i Malanova”, “Il gruppo folcloristico Sicilia Bedda” e i “Amastra”.
La musicalità tradizionale siciliana, ha ispirato musicisti celebri, principalmente il compositore catanese Vincenzo Bellini che, nella sua opera maggiore, la Norma, ha rappresentato, con intensità orchestrale, per intero il tragico patimento di un conflitto interiore.
Ed è il dolore, il tema dell’Inno Siciliano, “Vitti na Crozza”.
Di autore sconosciuto, il significato intrinseco del componimento, è il passaggio, sentito come innaturale, dalla vita alla morte, che viene descritta nel suo atto disfacitorio, ma con un rispetto religioso, che ricorda la filosofia dei sepolcri leopardiana.
Oggi sono molti gli artisti che, cantando della propria terra, mantengono viva la tradizione musicale e l’individualità siciliana: da Franco Battiato a Vincenzo Spampinato, da Gerardina Trovato a Carmen Consoli, ai Tinturia.
La realtà siciliana, la quotidianità raccontate nelle loro opere, in lingua dialettale, inventori di un nuovo genere musicale, sono testimonianza di devozione e manifestazione di orgoglio per una terra che “fa cultura”: la Sicilia.

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