L'Opinione

La Sindrome di Medea

In questi ultimi giorni la morte della piccola Elena Del Pozzo ha sconvolto la tranquillità delle nostre esistenze e ha inferto uno squarcio nella patina dorata che riveste la nostra società. Come un boomerang, la sua triste vicenda è rimbalzata in ogni notiziario, costringendoci a risvegliarci dal nostro torpore egoistico che ci spinge a vivere chiusi in noi stessi, rintanati nella nostra bolla personale. E, sconcertati, ci siamo riscoperti capaci di indignarci e di addolorarci per la morte di una bambina indifesa. Ma purtroppo non è la prima volta che una madre compie un gesto così crudele ed estremo nei confronti del proprio figlio. Se proviamo a voltarci indietro nel tempo, ci accorgiamo che la nostra storia è costellata di madri che hanno ucciso per vendetta o per gelosia nei confronti dell’uomo che le ha abbandonate. Donne sole e disperate che hanno sacrificato delle vite innocenti pur di provocare sofferenza e dolore, senza rendersi conto che alla fine anche loro sono vittime e colpevoli allo stesso tempo.  

La crudeltà con cui queste giovani vite vengono spezzate ci riporta in mente una delle figure femminili più terribili della mitologia greca, Medea. Una donna capace di ogni tipo di crudeltà. Prima tradisce il padre, poi fa a pezzi il fratello Apsirto pur di aiutare Giasone a conquistare il Vello D’oro e infine attua la sua vendetta anche contro di lui, quando, nonostante sia il padre dei suoi due figli, accetta di sposare Glauce la giovane figlia di Creonte, re di Corinto. Fingendosi rassegnata e ben disposta verso la nuova famiglia del suo uomo, invia come dono nuziale una veste intrisa di un potente veleno che provoca la morte della ragazza tra atroci sofferenze. E, non soddisfatta, uccide i suoi stessi figli, Mermero e Fere, in modo tale che Giasone non possa avere una discendenza ma soprattutto soffra in modo brutale.

Medea, questa donna sola, attraverso i secoli si è trasformata nell’antenata di tutte le donne rifiutate e ripudiate dal proprio uomo. Ma soprattutto è divenuta espressione perenne della ferocia scaturente dalla potenza devastatrice dell’Eros.

Perché Medea, come ogni donna che si è macchiata di questo orrendo crimine, è schiava di un amore malato, è vittima di un sentimento così forte e totalizzante da non essere in grado di gestirlo per cui viene spinta ad agire in modo assurdo, avendo perso ogni contatto con la realtà che la circonda.

La vendetta è frutto di una passione smisurata che conduce a una violenza irrazionale.

Una alterazione psichica che in ambito psichiatrico è stata definita come la Sindrome di Medea.

Una sindrome che, nel corso dei secoli, ha catturato l’attenzione di parecchi autori da Euripide, Ovidio, Ennio fino ad arrivare ai giorni nostri con Virgina Wolf e Pier Paolo Pasolini che hanno tentato di dare un significato a un gesto così incomprensibile.

Però per quanto si cerchi di comprendere o di giustificare un atto tanto innaturale, non si riesce a penetrare nel vortice forsennato di queste anime devastate e non si è in grado di scorgere alcuna luce nel buio interiore in cui sono precipitate.

Di fronte a una madre che uccide, ci ritroviamo spiazzati, nudi e soli perché privi della nostra unica e rassicurante certezza: una madre protegge sempre e comunque i propri piccoli e non li uccide.

Una sicurezza che ci accompagna sin dalla nascita e che ci fa sentire tutelati mentre ondeggiamo nell’ambiguità incerta della nostra quotidianità.

Tutti noi, di fronte a mostruosità simili, superato lo smarrimento iniziale, dovremmo fermarci, arrestare la nostra insensata e incessante corsa che ci aliena l’uno nei confronti dell’altro e che ci spinge a condurre esistenze solitarie, incentrate esclusivamente al soddisfacimento dei nostri bisogni.

Invece dovremmo uscire dal nostro individualismo, imparare a guardare e capire chi ci sta accanto e non continuare a essere ostinatamente chiusi nella nostra smania di prevaricazione.

Forse questo sarebbe un modo per impedire che nella società di domani ci siano ancora donne sole, abbandonate a se stesse e rinchiuse in un dolore che si trasforma in pazzia omicida.  Perché alla fine chi muore sono solamente dei bambini che non hanno alcuna colpa se non quella di essere il mezzo attraverso il quale richiamare l’attenzione di una collettività indifferente, interessata esclusivamente alla superficialità della materialità, estranea ai sentimenti più profondi che contraddistinguono l’animo umano

E  ci si dimentica che, ogni volta che una madre uccide il proprio figlio, questa morte ci degrada e segna una sconfitta per ognuno di noi, ma soprattutto un arretramento dell’intera nostra società.   

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