L'Opinione

La silenziosa migrazione dei giovani all’estero

Quando si parla di lavoratori migranti fuori l’Italia immediatamente la nostra mente vola alle foto sgualcite in bianco e nero di molti dei nostri nonni con le loro valigie sconquassate, legate con dello spago tutto attorno per non aprirsi e alle loro facce contratte dalla tristezza, segnate da rughe profonde e aride come la terra che stavano lasciando. Ma anche oggi, in questi tempi brillanti di false promesse, vediamo quelle stesse facce impresse nei volti delle migliaia di giovani costretti ad andare via dal nostro Paese. Non hanno più addosso vestiti logori o valigie consunte, ma l’aridità delle loro espressioni è rimasta la stessa così come è rimasta arida per tutti loro la terra in cui sono nati.

Loro sono i giovani invisibili che ogni anno decidono di lasciare l’Italia in cerca di quella identità loro negata.

 Pur rimanendo legati affettivamente, non trovano altra via d’uscita, beffati da un paese che ha tradito le loro aspettative e che li ha abbandonati al loro destino.

Dopo anni di sacrifici e di studi si ritrovano con una bella pergamena in mano che però non basta ad accedere alle carriere professionali desiderate. Le loro vite si trasformano in stretti corridoi pieni di porte chiuse, impossibili da aprire perché la chiave non è il merito e le competenze acquisite, ma l’amicizia giusta.

La meritocrazia nel nostro “allegro” paese è un miraggio, prevarica in modo prepotente ogni forma di spudorato nepotismo che ammorba università, pubblica amministrazione e sanità.

Ma non solo i laureati, anche i giovani che mirano a intraprendere percorsi lavorativi differenti, vengono disillusi. Le loro aspirazioni sono castrate da una burocrazia lenta e complessa che rende difficoltoso se non pressoché impossibile avviare una semplice attività imprenditoriale, causa un sistema fiscale, esoso e iniquo che, inevitabilmente penalizza tutti.

Quando si afferma che l’Italia non è un paese per giovani, si dichiara una triste verità che sta travolgendo un’intera generazione di ragazzi.

La nostra Italia non è più un posto per i nostri figli, non perché manchino di determinazione ma perché non ci sono più prospettive reali, annichilite da anni di propagande populiste che non hanno portato a nessun vero impegno per effettive politiche di liberalizzazione in modo da poter abbassare la pressione fiscale e introdurre il tanto contestato ma essenziale salario minimo.

Assicurarlo non è solo una questione economica ma soprattutto morale ed etica, per evitare forme di sfruttamento che ci riportano al passato in cui la dignità di un operaio valeva meno di quella del proprietario della fabbrica.

Ma non c’è bisogno di tornare indietro per trovare novelli padroni che, prepotentemente, si arrogano la pretesa di dettare le proprie leggi personali.

Così come ha denunciato il cameriere di un noto ristorante modenese che ha postato un video sui social, arrabbiato ma soprattutto deluso per essere stato pagato venti euro dopo sei ore di lavoro, una media vergognosa di tre euro l’ora. Ovviamente è superfluo aggiungere che si trattava di un lavoro in nero, è questa la prassi, ci sorprenderebbe il contrario.

Purtroppo il suo non è un caso isolato, ma rappresenta solo la punta di un mondo sommerso, in cui i giovani sono imprigionati come i dannati di Dante, a volte qualcuno riesce a sollevare il capo ma viene immediatamente risucchiato al fondo senza alcuna possibilità di riscatto. Sono cittadini di un paese che non li valorizza ma che li affossa e li costringe a vivere nelle loro svilenti sabbie mobili, fatte di incertezza e di insicurezza. La maggior parte di loro spesso è assunta con un contratto a tempo determinato, una vita in bilico, stritolata dall’ansia continua del domani e dalla preoccupazione di non arrivare a fine mese per l’inadeguatezza degli stipendi.

E così, mentre i nostri solerti politici si scontrano l’uno contro l’altro su quale sia la soluzione migliore per risolvere il problema dei disperati che ogni giorno approdano sulle nostre coste, non si accorgono della silenziosa ma inesorabile migrazione dei nostri giovani all’estero.

Qualunque altro paese offre retribuzioni lavorative decisamente migliori, a volte il doppio, ma soprattutto riescono a emergere per le loro capacità professionali.

Le loro motivazioni non sono solo economiche, sono spesso dettate dall’urgenza di uscire dall’anonimato in cui sono stati imprigionati e dalla necessità di esprimere il proprio talento senza vincoli.

Il loro non è un tradimento ma una necessaria affermazione della propria identità come competenza riconosciuta, in opposizione a un paese in cui manca una reale interazione tra Stato e cittadino in quanto gestita da partiti politici arroccati nelle loro sorpassate posizioni, incapaci di promuovere reali cambiamenti per le nuove generazioni.

Questi giovani invisibili fanno la valigia e se ne vanno e lasciano un vuoto nella nostra società che, come un enorme buco nero, risucchia dentro ogni nostra prospettiva di sviluppo non solo economico ma soprattutto umano e sociale.

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