Cultura

Intrighi, intrecci e amori: Verga, Fojanesi, Rapisardi… e le altre

Il 19 dicembre 1883 una lettera va a finire nelle mani sbagliate ed è la “catastrofe”. Destinataria era Giselda Fojanesi, mittente Giovanni Verga. Perché la “catastrofe”? Perché Giselda era da dodici anni sposata, infelicemente, con Mario Rapisardi, e il Verga il migliore amico, fino a quel giorno almeno, del marito di lei. Rapisardi le concede due ore di tempo per preparare i bagagli e la fa accompagnare alla stazione da un domestico. Giselda vuole fare prima una fermata a casa di Giovanni. Per informarlo? O per chiedere ospitalità? Questo non lo sapremo mai. Lui non la riceve nemmeno, fermo sulla soglia le dice che la cosa migliore da fare in quel momento è recarsi a Firenze (città di origine della Fojanesi, dove ci sono persone amiche che potranno ospitarla – nella fattispecie la contessa Lara, amante del Rapisardi e, stranamente, cara amica di Giselda da molti anni). Verga invece resterà “a disposizione di lui”, per un duello, in realtà quanto mai improbabile. Infatti Mario non l’avrebbe certo richiesto, visto che, durante la cosiddetta “polemica con il Carducci”, che un paio di anni prima aveva sfiorato i limiti del grottesco, aveva categoricamente escluso la possibilità di un duello con la scusa della salute cagionevole. Tutto sommato sarebbe comunque stato disdicevole se, cacciata dal marito, Giselda si fosse trasferita immediatamente a casa dell’amante, il quale poi si sarebbe trovato incastrato in una situazione da cui non sarebbe stato facile liberarsi, lui che di legami non ne aveva mai voluto sapere, ed era riuscito sempre a destreggiarsi senza farsi mettere la “catena” (termine questo che ricorre più volte nel suo immenso epistolario “d’amore”). Comunque Giselda di certo non nutriva grandi aspettative, e soprattutto non gli serbò affatto rancore se già pochi giorni dopo trepidò con lui nell’attesa dell’esito della prima di Cavalleria rusticana, a Firenze. Maria Borgese, nel suo Anime scompagnate (La Nuova Antologia, Milano 1937) racconta tutta la vicenda “parteggiando” apertamente per l’amica, però di questo episodio non c’è riscontro negli epistolari. La Borgese comunque fa di tutto per difendere il comportamento di Giselda e per descrivere la sua relazione con Verga con i toni dell’amore intenso e sincero.(“In seguito lo scrittore sempreché poteva si recava dovunque il suo impegno conduceva la Giselda” op. cit. pag. 396). Ma a chiarirci in modo definitivo le idee su questa complessa relazione sarà la stessa protagonista in una lettera del 1941 indirizzata al critico letterario Nino Cappellani, che aveva appena pubblicato una corposa biografia del Verga. Con grande lucidità la Fojanesi, ormai novantenne, rievoca quegli anni: “[..] fu da quel giorno (estate del 1880 n.d.r.) che la nostra relazione intima (non tresca, brutta parola) incominciò e durò fino alla morte del caro, indimenticabile amico, passando dalla passione ad una tenera e buona amicizia”.

Eppure il quel torno di tempo Giselda non fu la sola donna del Verga. Negli stessi giorni della “catastrofe” provocata dalla sua lettera dal contenuto inequivocabile (che però lei non lesse mai, se non nell’epistolario pubblicato dal Tomaselli, quasi trent’anni dopo) egli scriveva a Paolina Greppi “Sapete che voi siete la sola persona, che mi interessa e molto, a Milano.” Parole in fondo sincere, perché Giselda cui scriveva “Tu sei la donna come l’avrei sognata io, l’amica, la sorella, l’amante, tutto. […] Ti bacio sul viso, sugli occhi, sulla bocca, così, così a lungo, prenditi l’anima mia.” Giselda, dicevamo, viveva a Catania. E anche Dina Sordevolo in quegli anni già gravitava nella sua orbita.

Però il Verga fu un uomo, a suo modo, fedele alle “sue donne”, una fedeltà “duratura” anche se più che altro epistolare. Infatti il suo legame con Giselda durò fino alla morte (più di 35 anni), quello con Paolina pure (circa 40) e altrettanto durò, anno più anno meno, quello con Dina Sordevolo, la più coriacea, che perse la speranza di sposarlo solo all’ultimo, quando nel 1920, lui ormai ottantenne, lei vent’anni di meno, gli scrisse in occasione della nomina a senatore: “Spengo il lume e buonanotte Senatori.” parafrasando il detto popolare “buonanotte suonatori” con cui si indica che ci si è messo l’animo in pace! Ma del resto il buon Giovanni non ha mai fatto mistero con nessuna delle sue donne del proprio atteggiamento “anti-uxorio” come lo definisce Gino Raya. A Paolina l’aveva scritto già nel 1883 che non aveva alcuna intenzione di legarsi “Mi siete cara […] ma amo pure la mia libertà, la mia indipendenza assoluta, e la mia dignità. Per amor di Dio non cambiate tutto questo in catena che diverrebbe odiosa ad entrambi.” E con Giselda, prima grande passione della sua vita, mise subito le cose in chiaro: “Non prenderò mai moglie, perché non sposerei una più ricca di me, né sono io abbastanza ricco per sposare una povera; sarebbe per me una insopportabile mortificazione vedere mia moglie rimodernarsi un abito vecchio, non potendosene fare uno nuovo.” Stando così le cose la lungimirante signora Teresa Fojanesi provvide immediatamente ad indirizzare i sentimenti della figlia verso Mario Rapisardi, che per altro si presentava come un partito migliore del suo più affascinante ma squattrinato amico, visto che stava per diventare professore universitario (anche se poi fu proprio la signora Teresa a dover brigare con Dall’Ongaro perché ottenesse la cattedra). E lo stesso Verga, per tutto il viaggio da Firenze a Catania in cui accompagnò le due donne, non fece altro che magnificare le doti dell’amico. Ma la prima impressione che Giselda ebbe del futuro marito non fu affatto gradevole. “Il Rapisardi era magrissimo, macilento, con l’aria sofferente e non piacque molto a Giselda che lo trovò piuttosto ridicolo, nonostante le molte parole spese dal Verga in suo favore. (Giulio Catteneo, Verga, UTET, Torino 1963, pag. 100.) Tuttavia la corte serrata del poeta e le abili manovre della madre la convinsero a sposarlo, malgrado l’opposizione della famiglia di lui, che osteggiò a tal punto le nozze che i due giovani dovettero unirsi in matrimonio a Messina. L’ingresso della sposina in casa Rapisardi fu salutato dalla suocera con queste parole: “La vostra venuta in casa mia segna un giorno di lutto.” (Alfio Tomaselli, Epistolario di Mario Rapisardi, Battiato Editore,Catania 1922, pag. XXII). E ci mise tutti i mezzi la vecchia suocera affinché divenisse tale anche per la povera Giselda. Se, la prima volta che incontrò Mario, Giselda ne ebbe un’impressione negativa, la prima notte di nozze fu addirittura un trauma, così ne riferisce Maria Borgese (op. cit. pag. 178) “provò un senso di sgomento indicibile vedendo il marito nell’intimità, magro, sparuto, con le spalle strettissime, (i vestiti erano imbottiti dallo zio Giarretta), con tutti i caratteri dell’uomo molto malato e debole”. Eppure non tutti concordano con il giudizio della Borgese. Per Alfio Tomaselli (Epistolario di Mario Rapisardi,cit. pag. XXVII) “il Rapisardi era di statura vantaggiosa; esile nella persona ben proporzionata, si mantenne dritto elegantemente fino all’estremo. Gli occhi aveva neri e grandi, addolciti da una spiritualità malinconica.” Ma non fu solo l’aspetto fisico del marito a rendere la vita matrimoniale di Giselda un inferno. Ben presto Mario si rivelò, oltre che succube della madre, fedifrago e a volte addirittura violento. Sempre la Borgese riferisce un episodio in cui egli la colpì ripetute volte con un frustino sulle braccia nude e sulla schiena. Ed era cosa risaputa che egli intratteneva relazioni con diverse donne senza curarsi della moglie. La più nota fu la Contessa Lara (pseudonimo della poetessa Evelina Cattèrmole, che ben presto divenne anche amica di Giselda), Maria Borgese afferma che “la terza parte delle Ricordanze è tutta per altre donne, sebbene scritta con la moglie vicina”. (op. cit. pag. 297). È chiaro il suo punto di vista, amica della Fojanesi ne raccoglie le memorie nel suo Anime scompagnate, addolcendo di sicuro qualche episodio e tacendone intenzionalmente altri, allo scopo dichiarato di mettere in buona luce la figura dell’amica, che in quel periodo era attaccata da tutte le parti. Dopo l’allontanamento della moglie, Rapisardi si legò definitivamente con Amelia Poniatowski, che gli rimase amorevolmente vicina fino alla morte, ne raccolse le lettere e le consegnò ad Alfio Tomaselli, divenuto quasi subito suo devoto marito, tanto da dedicarle il famoso epistolario che. senza la sua annosa quanto “meticolosa” ricerca di materiali nella casa del Vate, non avrebbe certo potuto vedere la luce.

Nel “partito” opposto, dunque, quello dei fautori sfegatati di Rapisardi troviamo Alfio Tomaselli, curatore di un epistolario che suscitò grande scalpore. Egli non attese nemmeno che morisse l’ultimo grande protagonista dello scandalo che aveva infiammato gli animi per lungo tempo. Rapisardi si era spento il 4 gennaio 1912 e Verga morì il 27 gennaio 1922. Pochi giorni dopo l’uscita dell’Epistolario di Mario Rapisardi. Strana casualità! In una lettera del 14 marzo Giselda così scrive a Federico De Roberto (cui aveva chiesto, nel presentimento della “catastrofe”, di deporre un fiore sulla sua salma – torna ancora questo termine associato in qualche modo al suo rapporto con il Verga, ma questa volta lei allude alla sua morte di cui ha il presentimento): “Gentile amico, sono fuori di me! Leggo sulla rivista «Il Mondo» del 23 febbraio un articolo di Cesareo Un epistolario interessante. Pare che il sig. Tomaselli abbia pubblicato l’epistolario di Rapisardi, me viva, con lettere infami e che io ritengo apocrife, che gettano fango su me e sull’amico nostro.” Eppure l’articolo del Cesareo tentava di ridimensionare la portata della “tresca” di cui parlava il Tomaselli, tanto che quest’ultimo si vide costretto ad affondare vieppiù la lama affinché l’effetto che sicuramente voleva ottenere, non venisse ridotto. Ancora dieci anni dopo con il Commetario rapisardiano riprende l’argomento, scadendo però nel più bieco pettegolezzo da cortile. A pag. 64 riporta una lettera da lui inviata al “Giornale di Sicilia”, (anno LXII, n. 30 4 febbraio 1922) in cui critica la corrispondenza Dall’Ongaro-Verga-Rapisardi, pubblicata sul quotidiano alcuni giorni prima, in cui il Dall’Ongaro così si esprimeva:“L’indole espansiva della Fojanesi, che trasferitasi a Catania, serbò intatte le abitudini di cortesia e di grazia della sua Toscana, fece credere che i suoi rapporti col Verga non fossero soltanto amichevoli.”

Tomaselli attacca il Cesareo che nel suo articolo ridimensionava la portata del “tradimento” di Verga con le parole “il Verga avrà fatto male, ma col cuore non si ragiona”. Egli invece sottolinea “è da notare il tradimento freddo continuo calcolato, diremmo anche sistematico. Il Verga tradisce l’amico dandosi in braccio ai nemici di lui, e con loro fa causa comune, si mette sotto la loro protezione (op. cit. pag. 124). Arriva a sospettare intrighi e complotti ai danni del Rapisardi da parte di tutti, persino di Giovanni Verga, che insinua, si avvicinò alla di lui moglie proprio nel periodo della “polemica” Rapisardi/Carducci. “Ma come e perché l’antica amicizia tra la Giselda e il Verga si riattaccò in segreto per via epistolare dodici anni dopo, giusto nel tempo della polemica famosa?”

Al di sopra delle parti sembra invece Leonardo Sciascia quando nel suo Pirandello e la Sicilia (Adelphi, Milano 1996, pagg.151 e segg.) riporta il giudizio di Vitaliano Brancati che trasforma i due protagonisti in personaggi tipici della propria visione della Sicilia “investita di comica luce”. “Catania amava il Rapisardi: il poeta che usciva col parapioggia, che portava un fiero cappello e una cravatta a fiocco; non poteva amare Giovanni Verga che vestiva come un qualsiasi galantuomo, non era distratto, non faceva stramberie e parlava poco. […] Tanto amava Rapisardi, il popolo catanese, che quando seppe del tradimento della moglie, e il terzo era per l’appunto Giovanni Verga, ad esprimere solidarietà per il poeta tradito i catanesi gli portarono sotto casa una festosa fiaccolata: il che, per un popolo che solitamente disprezza e dileggia i cornuti, è una strabiliante prova d’affetto.” Ma, quando si mette da parte l’aspetto puramente biografico Sciascia, non può non sottolineare la grandezza dell’opera verghiana, figlia del Risorgimento e sua voce significativa, al confronto della produzione di Rapisardi che, alla resa dei conti della storia, si riduce “ad una breve antologia di idilli”.

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