In ricordo di Dora Musumeci
Il 10 ottobre 2004 moriva Dora Musumeci, pianista catanese. Alcuni giorni prima era stata travolta da una macchina mentre usciva dalla Chiesa di Cristo Re. In quell’occasione misi per iscritto tutto il mio rimpianto.
A distanza di tanti anni dall’infausto giorno, mi preme ricordare ancora una volta la figura di questa valorosa artista.
Nella Catania del dopoguerra, che viveva il risveglio intellettuale, una bambina bruna, vivace ed estroversa, si affacciava alla vita, forte della protezione del padre e ricca di un grande talento musicale.
Era Dora Musumeci, figlia di Totò Musumeci, violinista al Teatro Massimo Bellini di Catania, grande appassionato di jazz e swing.
L’unione con il padre sembrava sovrastare in lei qualsiasi altro legame. Sarà così per tutta la vita.
Il padre la guidava nelle scelte, la portava con sé nelle riunioni con gli amici (Mario Giusti, Gerardo Farkas, Pippo Meli, Turi Ferro ed altri) e la faceva esibire nelle serate musicali, orgoglioso di quella figlia che, all’inizio con una piccola fisarmonica, poi con il pianoforte, aveva il dono di allietarle.
Gli sguardi di ammirazione e di approvazione del padre, i suoi incitamenti le davano una spinta vigorosa per affrontare gli studi e diplomarsi giovanissima al Conservatorio di S. Pietro a Maiella di Napoli e, allo stesso tempo, la vincolavano ad un rapporto intenso ed esclusivo con lui, mai finito, determinante nel tempo.
La bambina vivace, negli anni, con gli anni, si andava trasformando in una fanciulla tesa alla ricerca del successo, attenta alla propria affermazione, e dunque sempre meno spontanea, più rigida. L’educazione allo studio del pianoforte, alla tecnica pianistica, sotto la guida del prestigioso Maestro Vincenzo Vitale che ne esaltò le doti di allieva diligente, la consapevolezza di potere valere, le davano una impronta di grande serietà, ma la privavano allo stesso tempo delle fragili eppure intense emozioni dell’adolescenza. Il rapporto con il padre fu l’unico che volle vivere, rifiutando, nel pericoloso gioco del paragone e dell’idealizzazione, qualsiasi altro legame più concreto.
E tuttavia la sua anima avrebbe voluto percorrere più vasti sentieri. Forse l’appoggio del padre le era necessario, ma non poteva appagarla del tutto. E non le bastava neanche la musica classica: le regole fisse delle esecuzioni infatti, nel difficile ed inevitabile confronto con le interpretazioni di celebri pianisti, di calibro certamente superiore al suo, la chiudevano in una mediocrità che la avviliva. Chopin, Debussy, Beethoven non facevano più per lei.
La sua libertà, umanamente racchiusa e rinchiusa nel solo rapporto col padre, e professionalmente legata alle rigide regole delle esecuzioni classiche, aveva bisogno di espandersi in qualche modo. E la liberazione avvenne, attraverso la sublimazione dell’arte, quando Dora scoprì il jazz.
Il jazz le riempì la vita e le permise di manifestarsi quale era: impetuosa, decisa, aperta.
Chi ha avuto il privilegio di ascoltarla dal vivo, ha sentito , nel suo timbro possente, nel dominio delle note, nella padronanza della tastiera, una affermazione di libertà, di autodeterminazione, una ricerca di sentieri aperti, sconfinati. George Gershwin la rapì con le sue note, le diede la misura di come ”anche” la musica jazz poteva entrare a pieno titolo in quel piccolo scrigno in cui conservare le proprie sensazioni e sentirle vibrare all’unisono con un altro essere.
Si esprimeva in esecuzioni magistrali, ma anche in ardite composizioni. E nel fare partecipi del suo entusiasmo per il jazz anche i suoi alunni, li spronava ad apprezzare Gershwin, fino ad indurli a portare agli esami di Conservatorio “Un americano a Parigi”, da lei trascritto per pianoforte. Anche chi non amava il jazz, avendo compreso ciò che il “suo” jazz esprimeva, finiva per amarlo e per amare anche lei. Dora sentiva la sua anima librarsi, la sua energia sprigionarsi, il suo sacrificio consumarsi alla ricerca della perfezione tecnica, quella perfezione che dà la libertà di esprimersi senza esitazioni, lasciando alle forze interne la possibilità di liberarsi.
A questo è servito il suo cammino di studio e di disciplina: a lasciarsi andare, nel “suo” jazz, fuori dalla compostezza, senza freni e senza inibizioni, ma forte del rigore tecnico. Non volle spiccare il grande volo e, pur essendo fortemente richiesta all’estero, restò quasi sempre ancorata alla sua Catania. È forse questo uno dei motivi per i quali la sua arte non sia stata compresa appieno.