L'Opinione

Il triangolo scaleno: a che punto è l’Italia?

Il triangolo scaleno al tempo che fu

Dalla nascita, nel 1861, al 1948 lo Stato d’Italia ebbe un regime costituzionale paragonabile a un triangolo scaleno. Il lato dell’altezza era Sua Maestà il Re. Per grazia di Dio. Il lato verticale, addossato “all’asta della Storia”, fu più o meno alto, secondo la personalità dei titolari della Corona e i tempi nei quali la calcarono. Vittorio Emanuele, padre della Patria, era secondo di quel nome come re di Sardegna e tale si volle e rimase come re d’Italia, con buona pace di mazziniani, garibaldini, federalisti, neoguelfi, ex borbonici, ex asburgici, papisti pentiti…e magari anche bonapartisti in sonno o in servizio permanente effettivo. Era lui il garante dello Stato d’Italia nella Comunità internazionale. Altrettanto fu Vittorio Emanuele III, il re delle due guerre europee e poi mondiali. Molto se ne parla, in termini quasi sempre ingenerosi, provincialotti, settari. Spesso si dimentica che a volere quelle conflagrazioni non fu mai l’Italia. Essa vi entrò per calcolo e per timore. La prima volta andò bene, la seconda male. Se fosse andata meglio, sarebbe stato peggio.

Tornando all’Asta della Storia, il secondo lato del triangolo scaleno, quello obliquo, era il “governo del re”. L’Esecutivo era nominato motu proprio dal sovrano e a questi doveva rispondere. Solo con il tempo i “ministri segretari di Stato” si differenziarono rispetto ai titolari delle altre cariche (ministri di Stato, ambasciatori e funzionari pubblici civili e militari dei vari gradi ), tutti nominati dal Re in forza dell’articolo 6 dello Statuto albertino.

Il lato inferiore del triangolo la Camera dei deputati, dalle malelingue detta “Bassa” per distinguerla da quella dei senatori che, nominati ad almeno quarant’anni compiuti, vi rimanevano a vita. La “Camera Alta”, aveva un numero illimitato di componenti. Il Senato passò così dai circa sessanta componenti iniziali (quando era del solo regno di Sardegna) a circa quattrocento. Proprio perché composto da membri vitalizi e tendenzialmente longevi, esso conobbe un modesto ricambio generazionale. In tutto e per tutto lungo un intero secolo, dal 1848 al 1948, i senatori furono poco più di duemila quattrocento: il meglio della dirigenza pubblica, imprenditoriale e culturale del Paese. Forse proprio perché era al di sopra dei marosi, a differenza delle più sparute associazioni partitiche, sindacali e dei circoli parrocchiali, il Senato del Regno continua a mancare di un affresco storiografico esaustivo. Rispettoso di Sua Maestà, esso deliberava la convalida dei membri via via nominati. Sia pure di rado, alcuni, benché già avallati dal sovrano, furono rigettati.

La Camera dei deputati, come già detto, era dunque il lato inferiore del triangolo scaleno. Aveva un numero di seggi fissati non dallo Statuto ma da leggi a misura dell’ingrandimento del regno, sino a quella dei 508, che durò dall’acquisizione di Roma e del Lazio alla fine della Grande Guerra. Ma quali erano i suoi poteri? In forza dell’articolo 10 dello Statuto “ogni legge d’imposizione di tributi, o di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato sarà presentata prima alla Camera dei deputati”. Questa precedenza formale non intaccò il bicameralismo perfetto voluto da Carlo Alberto di Sardegna perché le leggi chiedono debita ponderazione. Devono essere chiare e durare nel tempo. Non per caso tante norme odierne citano in premessa (“visto…”) quelle del Regno d’Italia. Qualunque legge approvata dalla Camera doveva passare al vaglio del Senato, a rischio di bocciatura. Perciò i parlamentari elettivi ebbero margini stretti di iniziativa.

Secondo molti opinionisti per i quali “il numero è potenza”, la forza del lato inferiore del triangolo scaleno sarebbe stata maggiore in proporzione al parco degli elettori. E’ lecito dubitarne. Molte tra le leggi più coraggiose e lungimiranti furono varate dal Parlamento quando l’elettorato era di appena 600.000 o meno di 3.000.000 cittadini. Proprio perché non doveva dare conto a moltitudini succube di superstizioni e di pregiudizi e malgrado maggioranze a volte risicate la Camera approvò leggi innovative, in specie su diritti civili. In molti casi, d’altronde, queste vennero anticipate da regi decreti che ampliarono e sancirono le libertà dei cittadini molto più di quanto avrebbe concesso l’“opinione pubblica” coeva, conformista o assente, e perché tanta parte dei regnicoli, non certo per colpa loro, era di analfabeti costretta a vivere e a testa china in condizioni spaventosamente arretrate, come documentano i quindici volumi dell’“Inchiesta Jacini” sulle classi agrarie. Un quarto di secolo dopo l’unità nazionale anche in Piemonte i proprietari di dieci ettari di terra coltivata e di stalle ben fornite lavoravano sino a sedici-diciotto ore al giorno e riposavano buttandosi poche ore vestiti come erano su un “paglione”, spesso di foglie. L’acqua potabile era estratta da pozzi poco profondi. Metà dei nati non superava i 15 anni di vita.

A ben vedere, dunque, nel lato basso del triangolo scaleno erano ammassati i regnicoli, “uguali dinanzi alla legge” e tenuti a contribuire indistintamente ai carichi, “nella proporzione dei loro averi” e soprattutto attraverso le tasse sui beni rimari di consumo, la cui introduzione suscitò rivolte nelle terre che prima dell’unità nazionale ne erano esenti.

Anzitutto, “fare l’Italia”

Mentre divampa la dialettica fra governo centrale e consigli regionali, molti tornano a domandarsi perché all’indomani dell’unificazione l’Italia non abbia imboccato la via del regionalismo. Si cita a proposito e spesso a sproposito Carlo Cattaneo, federalista. Studi, progetti e disegni di legge di impostazione favorevoli al “dis-centramento” (come all’epoca si diceva) abbondarono all’indomani della proclamazione del regno. Non solo l’emiliano Marco Minghetti e tanti economisti e politici del Mezzogiorno elaborarono una visione organica della miglior armonia tra potere centrale e amministrazioni locali, disciplinate da Urbano Rattazzi nell’ottobre 1859 con una legge destinata a durare settant’anni. Ma come si poteva concretamente e seriamente credereche il federalismo non covasse il ritorno delle divisioni secolari tra le diverse Italie e la prevalenza dei “compartimenti” più avanzati su quelli più arretrati?

I censimenti decennali svolti dal 1861 dicono che, unita “sulla carta”, l’Italia era e rimase lacerata. Il quadro è anche peggiore sotto il profilo della storia politica. Sino alla morte, sopravvenuta il 10 marzo 1872, Giuseppe Mazzini continuò a cospirare per rovesciare la monarchia. Tanti suoi seguaci ritenevano che bastasse eliminare Casa Savoia perché gli italiani vivessero felici e contenti. Fu lo storico Pasquale Villari (Napoli, 1846- Firenze, 1917), deputato, senatore, ministro della Pubblica istruzione, massone in gioventù, a dire la verità: gli italiani erano ventidue milioni, cinque milioni di arcadi, diciassette di analfabeti. Il problema del Paese non era questa o quella Casa Reale, questo o quel presidente del Consiglio ma l’organizzazione della macchina dello Stato in un’Europa che non faceva sconti a nessuno, come si vide con la guerra austro-prussiana del 1866, in quella franco-germanica del 1870-1871, di gran lunga più sanguinosa e socialmente devastante, e quella tra russi e turchi nel 1878, dagli aspetti talora belluini.

A differenza di quanto venne retoricamente ripetuto, non era ancora momento di “fare gli italiani” ma di fare davvero l’Italia. Per secoli ogni staterello aveva pensato per sé, cioè non aveva pensato affatto, perché (a parte il Regno di Sardegna, costretto dalla geografia a stare nella storia, cioè sempre con l’arma al piede) era l’appendice diretta o indiretta di potenze straniere. Col 1861 bisognò inventare un sistema di difesa con l’occhio alle Alpi e al Mediterraneo, una diplomazia planetaria. Erano gli anni degli Imperi coloniali. Napoleone III mentre combatteva nella pianura padana occupava la Cocincina; sei anni dopo con Massimiliano d’Asburgo (figlio di Napoleone II?) tentò di dar vita all’Impero del Messico, che avrebbe sparigliato la storia e riportato l’Europa alla guida del mondo. Gli “americani” lo capirono bene e lo fecero fucilare a Queretaro dal repubblicano Benito Juarez.

In quel quadro, tutto poteva fare il governo d’Italia tranne che fermare il processo di costruzione dello Stato. Già doveva fronteggiare il banditismo nelle Romagne, il grande brigantaggio nell’ex Regno delle Due Sicilie (sette anni di guerriglia feroce), la rivolta di Palermo nel 1866 (repressa duramente dal siciliano Antonio Starrabba di Rudinì, sorretto da Raffaele Cadorna), proteste e insorgenze contro la tassa sulla macinazione delle farine voluta da Quintino Sella per fornire al governo i mezzi per far decollare infrastrutture scuole, sanità, edifici servizi pubblici: quanto occorreva affinché lo Stato passasse da semplice enunciazione a realtà effettiva.

Ora spontanea, ora spintanea

Non bastasse quel povero neonato Regno d’Italia dovette fare i conti con due ferite che avrebbero affossato qualunque altro Paese: la scomunica di Vittorio Emanuele II e di tutti i suoi ministri, deputati e “agenti” da parte di Pio IX perché nel 1859-1860 si era appropriato del grosso dello Stato pontificio; e lo “sciopero politico” dei cattolici, che per mezzo secolo disertarono le elezioni per il rinnovo della Camera. Assediata su tutti i fronti, dall’estero all’interno, la dirigenza postunitaria non ebbe né tempo né modo di cambiare la costituzione, benché sempre più anacronistica.

Di decennio in decennio la Nuova Italia camminò in affanno, spesso sospinta dall’esterno. Dopo l’imposizione del protettorato francese su Tunisi nel 1881 e la riluttanza dell’Italia a impegnarsi a fianco di Londra in Egitto nel 1882, fu l’Inghilterra a imporre a Roma di fare la propria parte nel Mar Rosso, dopo l’eccidio di Karthoum nel 1884. Altre volte fu trascinata da interessi interni: compagnie di navigazione, commerciali, assicurative… L’adeguamento dell’assetto costituzionale ai tempi nuovi finì e rimase in un cono d’ombra. Il regio decreto 14 novembre 1901 sugli affari da sottoporsi al consiglio dei ministri, voluto dal democratico bresciano Giuseppe Zanardelli d’intesa con il trentaduenne Vittorio Emanuele III, mutò la distribuzione delle statuine del presepe ma non spostò né la Capanna né la Stella Cometa. Nel 1915 l’Italia entrò nella Grande Guerra con lo Statuto del 1848. Col medesimo ne uscì. Nel dopoguerra la Camera Bassa si occupò di legge elettorale (la “maledetta proporzionale”), inchieste su sperperi e altre minutaglie, ma lasciò intatti i poteri della Corona, a cominciare da quello di dichiarare guerra. Così dal 10 giugno 1940 gli italiani appresero a cose fatte di essere e in guerra contro la Francia, la Gran Bretagna e, a seguire, contro l’Unione sovietica e gli Stati Uniti d’America.

Una coperta corta

Ci volle la sconfitta per imporre il rinnovamento ab imis fundamentis: l’Assemblea Costituente, prevista ed eletta in forza Decreti legge Luogotenenziali di Umberto di Savoia. La Costituente, i cui deputati furono eletti il 2-3 giugno 1946, avrebbe fatto la sua parte anche se al referendum costituzionale la monarchia fosse prevalsa sulla repubblica. I tempi di una Carta nuova non solo erano maturi ma necessari. I costituenti, anzi, andarono così innanzi che alcune loro innovazioni (dalla Corte Costituzionale alle Regioni a statuto ordinario) rimasero sulla carta per lunghi anni. Anche nel 1946-1949, sino a quando non trovò riparo sotto l’ombrello difensivo della NATO e dell’Alleanza Atlantica, la coperta risultò nuovamente molto corta.

Ora è si indilazionabile la revisione della Costituzione. Non è questione di pandemia. È un nodo sempre più ingarbugliato. Va affrontato per rimanere davvero in Europa, anzi, più estensivamente, in Occidente: nell’area dei principi enunciati dalla Carta del 1948, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalle Convenzioni che ne derivarono, che Roma ha sottoscritto ma talvolta ha anche violato. Occorre pensarci per tempo mentre iniziano ad aleggiare fantasmi come la definizione di “Stato di diritto”. Chi ha titolo per stabilirne i termini? È bene che, a differenza di quanto accadde dal 1848 al 1948, l’Italia provveda da sé ad adeguarsi ai tempi correnti e venturi. Anche perché sulla fine della legislatura precedente in tempi recenti si sono registrate alcune sconcertanti divagazioni lessicali. Ne rimane esempio inquietante la Relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’indagine sulla criminalità organizzata che gettò ombre pesanti sulla libertà dei cittadini di associarsi in organizzazioni non vietate dalle leggi vigenti. Ove il diritto venne distorto.

In tempi calamitosi il triangolo equilatero vaticinato dai costituenti settant’anni addietro è sempre più sfocato sull’orizzonte. Con l’eclissi del Parlamento, raggirato dall’Esecutivo, si torna allo scaleno, malattia infantile dello Stato d’Italia. Intirizzito e con la coperta sempre più corta, sdrucita dal debito pubblico a livelli più incontrollati di ogni contagio.

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