Teatro

“Il sogno di un valzer”: lo Stabile di Catania racconta del Vitaliano Brancati che… sfotteva Pirandello

Nella Sala Futura, la trama finissima ordita dal Catanese di Pachino precipita dal comico al tragico nella terribile conclusione: un delitto. Per di più senza una reale causa scatenante, ma che affonda nel sogno. Uno spettacolo corale magnificamente orchestrato da Cinzia Maccagnano: solo cinque gli attori sulla scena, ma talmente bravi da rappresentare, con dovizia di caratteri, un’intera comunità: la tribù di Nissa, emblema del provincialismo. Scene e luci di altissima qualità.

Un sorprendente viaggio alla scoperta della parte meno nota dell’universo Vitaliano Brancati. Questo è “Il sogno di un valzer”, spettacolo andato in scena nella Sala Futura del Teatro Stabile di Catania per la regia di Cinzia Maccagnano, la quale ha saputo costruire, ancora una volta, un meccanismo scenico pressoché perfetto.

“In certe epoche non bisognerebbe avere mai vent’anni” aveva scritto il Catanese di Pachino abiurando il suo iniziale fascismo, tornando in Sicilia a metà degli anni Trenta del Novecento. Ma fu sulla fascistissima rivista Quadrivio che, tra il 5 giugno e il 14 agosto del 1938, uscì, a puntate, “Il Sogno di un valzer”. Narrando della tribù di Nissa prigioniera della noia malinconica del provincialismo e che vagheggiava un grande ballo per “Evadere! Trasfigurarsi! Diventare altri!”,

Una collettività sospesa tra sogno e reale – tra essere e sembrare? – fatta di “arabi, cavillosi, filosofi, che tutto complichiamo: non ci riesce possibile d’esser semplici, vogliamo in ogni caso apparire profondi”.

“Dobbiamo organizzare un ballo!” affermava dunque Ottavio Carruba, “la persona più rispettabile di Nissa, per la sua cultura profonda, e per i paramenti della sua vita”, parlando con Carlo Cannata, professore di filosofia al quale le idee “non lasciavano il minimo fiato in petto”, e con l’avvocato Lorena, erede d’una stirpe di politici e incapace di trovare, “nemmeno tra i nemici più accaniti, un solo uomo non degno di ammirazione”.

Da questi presupposti prende il via, magnificamente orchestrato da Cinzia Maccagnano (che firma anche, con Marta Cirello, l’adattamento), uno spettacolo corale: solo cinque gli attori sulla scena – Giovanni Carta, Rita Fuoco Salonia, Giorgia Boscarino, Federico Fiorenza e la già citata Marta Cirello – ma talmente bravi da rappresentare, con dovizia di caratteri, un’intera comunità. Una tribù che si muove sulle fantasiose ed efficacissime scene “animate” di Riccardo Cappello (autore anche dei costumi), rese ancor più emozionanti dalle luci con cui Gaetano La Mela le dipinge.

Carruba, dunque, viene nominato presidente del comitato organizzatore del ballo, ma pretende, contro il parere di tutti, che ne faccia parte anche Giovanni La Pergola, di professione verdumaio “quello quasi analfabeta, che veste sempre di nero perché ha giurato di portare sino all’ultimo giorno il lutto per il fratello ucciso da sconosciuti quindici anni avanti”.

Carruba, però, ne parla come di uno “spirito perfetto”: “sebbene l’educazione non lo abbia fornito di grandi mezzi, egli rimane sempre atteggiato a una grazia superiore”. Di parere opposto la moglie di La Pergola: “Dicono che sei un genio… A me mi pare peccato pure l’acqua che ti bevi!”.

Per far accettare il verdumaio alla tribù, Carruba cerca il supporto di “Tutte le donne intellettuali”, a cominciare da Lisa Martoglio, “la più intelligente e colta fra le intelligenti e colte”. E di lei racconta: “aveva fatto portare un letto dentro la sua biblioteca e si era chiusa per una settimana fra le scansie dei libri e, giorno e notte, aveva studiato e recitato, sola, davanti a uno specchio, la parte dell’attrice in Trovarsi di Pirandello”.

E qui esplode l’aperta ironia, lo sfottò, che Brancati riserva al conterraneo, nonostante questo avesse ricevuto il Nobel nel 1934, dieci anni dopo la sua clamorosa adesione al fascismo: “Le signore e signorine adoravano Pirandello: era da lui che avevano capito perché spesso si sentissero non una ma due…”.

Meno comprensibile la scelta di dare il cognome di Martoglio – come Nino, morto, e secondo alcuni ucciso dai fascisti, nel 1921 -, alla “più intelligente e colta”.

La vicenda va avanti, su un registro ironico: mentre Carrubba cerca consigli su come vivacizzare la serata, tra coriandoli e cappellini di carta velina, ecco che il salone del Municipio viene destinato a una conferenza delle esorbitanti monache Paoline e il ballo è rimandato.

Così, mentre sulle misere casupole di via delle Calcare si allungano le prime ombre della guerra, la parte più povera della tribù di Nissa affronta blatte, topi e scorpioni, madri che si prostituiscono per fame, figli che fuggono non dover mangiare più pane duro e vivere nel buio pesto per l’alto costo di petrolio e candele. Mentre la borghesia può tornare a immergersi nei profondismi di giganti come Freud e soprattutto di Rudolf Steiner, con la sua antroposofia, assimilabile alla chiaroveggenza. 

La trama finissima ordita da Brancati precipita dal comico al tragico nella terribile conclusione: un delitto. Per di più senza una reale causa scatenante, ma che affonda nel sogno: “Steiner! Steiner è il grande genio! Colui che ha dato a tutti i modi di penetrare nell’ultrasensibile!”.

Non solo un grande spettacolo, dunque, questo “Il sogno di un valzer”, ma un’operazione culturale estremamente interessante. Anche perché, nella Sala Futura, vedremo anche il “Don Giovanni involontario” e “In cerca di un sì”.

E il Teatro Stabile approfondirà i temi riguardanti questo autore così importante con Caffè letterari condotti da Gianni Garrera.

Le foto di scena sono di Antonio Parrinello

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