Il ragazzo e lo sciamano
Viviamo in un mondo di adulti che hanno smarrito il loro ruolo di educatori.
Il sistema educativo sembra non essere più efficace come un tempo. La scuola dovrebbe fornire una cultura che consenta ai giovani di districarsi in una realtà che ogni giorno appare più complessa; invece si riduce spesso a fornire sterili nozioni imparate controvoglia, che gli adolescenti avvertono come profondamente distanti dal loro mondo reale.
Anche genitori assai spesso non riescono a intercettare i segnali di malessere che spesso i ragazzi inviano, magari in modo latente e sembrano desiderosi solo di rispecchiarsi nei successi dei propri figli e impotenti a gestire difficoltà e problemi.
Così i ragazzi cercano aiuto altrove: negli amici, e sono i casi più fortunati, sui social o in figure che a loro sembrano più carismatiche e vicine rispetto a quelle dell’insegnante o del genitore.
A volte, privi di guide, questi giovani adulti si affacciano al mondo senza saper riconoscere un pericolo o riuscire a difendersi dagli impostori.
Ed è per questo che la storia di Alex Marangon ha suscitato tanti interrogativi.
All’inizio di luglio il corpo del venticinquenne Alex Marangon viene ritrovato senza vita dai vigili del fuoco in un isolotto del fiume Piave. Il cadavere presentava ematomi sulla testa e sul busto, ma non sulle braccia.
Nelle ore successive si scoprirà che il ragazzo si era allontanato da casa per partecipare ad un rito sciamanico, chiamato “Sol de Putumayo”, nella suggestiva abbazia sconsacrata di Santa Bona a Vidor, nei pressi di Treviso.
Non era la prima volta che Alex prendeva parte a questi incontri. Ce n’erano stati altri e esisteva perfino una chat su Telegram dove i partecipanti al gruppo si scambiavano messaggi e si definivano tempi, luoghi e costi dei raduni.
Quest’ultimo incontro però, ma questo si scoprirà solo dopo il ritrovamento del cadavere, sarebbe stato diverso: Alex aveva confidato alla sorella di aver paura ed aveva perfino chiesto ad un amico di accompagnarlo, ricevendone un rifiuto. Diceva che questo nuovo rito sarebbe stato più “tosto”.
Non aveva invece parlato delle sue paure con i genitori che attoniti cercano risposte e verità.
Subito dopo il ritrovamento del corpo cominciano le indagini della polizia e, dopo l’autopsia, appare evidente l’ipotesi di un omicidio perché le lesioni presenti sul cadavere non sono compatibili con quelle provocate da una semplice caduta.
Inoltre i due guaritori sudamericani che dovevano guidare il rito sciamanico, Jhonni Benavides e Sebastian Castillo (rispettivamente il curandero e il musicista colombiano), e che sono coloro che per ultimi avevano visto Alex, partono subito dopo il ritrovamento di Alex, affermando di avere altri incontri di lavoro, e rispondono alle domande solo tramite i loro avvocati.
Qualcuno riferisce di aver sentito Alex urlare nel bosco la notte dell’ultima “festa”, mentre la chat di Telegram misteriosamente scompare (insieme a tutti gli altri partecipanti all’incontro). Infine, mentre ancora si cercava il ragazzo, l’organizzatore dell’incontro, Andrea Zuin, parlando con la sorella di Alex aveva fatto un lapsus dicendo: “Da quando è M…, da quando è successa questa cosa”.
Quella M… rimasta in sospeso nell’aria fa pensare che la sorte di Alex fosse già nota agli organizzatori del rito, quando la polizia ancora sperava di ritrovare il ragazzo vivo.
Risulta quindi evidente che, malgrado gli avvocati degli sciamani parlino di caduta o addirittura di suicidio, qualcos’altro deve essere successo quella notte.
Perché Alex aveva timore di partecipare a questo incontro? Cosa sarebbe successo di diverso rispetto alle sedute alle quali aveva già partecipato? Perché era fuggito nel bosco, inseguito probabilmente dagli organizzatori?
Ed è a questo punto che compare l’ipotesi dell’ayauhasca.
In lingua quequa ayauhasca significa liana degli spiriti o liana dei morti ed è un decotto pischedelico a base di diverse piante amazzoniche.
In Amazzonia l’ayahuasca viene consumata per purificare lo spirito, sconfiggere la depressione e liberare le proprie energie. Poiché il decotto può provocare il vomito o indurre a chi lo beve ad avere allucinazioni, di solito la sua assunzione viene guidata da uno sciamano esperto in grado di controllare e contenere ciò che avviene dopo l’assunzione. Non ci sono ancora studi medici così approfonditi che consentano di parlare del principio attivo di questo decotto, ossia il DMT, come di un rimedio pericoloso, ma dato che il composto contiene anche inibitori delle monoaminossidasi, se combinata con alcuni alimenti, l’ayahuasca può avere effetti avversi e in alcuni casi letali.
L’organizzatore della festa sciamanica e i curanderos negano che Alex la notte della sua morte abbia bevuto l’ayahuasca e sostengono di avergli solo somministrato un purgante. Ma la fuga nel bosco, le urla di Alex e lo stesso costo dell’incontro (quasi raddoppiato rispetto a quello dei precedenti) fanno sospettare che il ragazzo possa aver assunto il decotto.
Cosa sia successo davvero ad Alex quella notte non si sa e sarà compito della polizia stabilire se sia stato picchiato o ucciso, magari per non rivelare qualcosa che gli avevano fatto o che aveva visto durante il raduno.
I genitori di Alex, intervistati durante alcune trasmissioni televisive, sembravano turbati e confusi ma anche piuttosto all’oscuro di quanto avveniva durante i riti che si tenevano a Santa Bona. Hanno raccontato ai giornalisti di un video, inviato da Alex in occasione di una precedente festa sciamanica, nel quale il figlio, sorridente e con i capelli al vento, parlava di musica e di natura.
Questo a loro era bastato.
Non si erano chiesti perché un ragazzo di 25 anni, che lavorava come barman e che tutti descrivevano come allegro e solare, sentisse il bisogno di partecipare a riti sciamanici. Non sapevano nulla dei suoi timori e neanche del fatto che il ragazzo avesse chiesto ad un amico di accompagnarlo.
Certo i giovani sono curiosi e cercano l’avventura, quindi non si può escludere che Alex fosse stato catturato da un percorso che gli sembrava così esoterico e misterioso; ma si potrebbe anche ipotizzare che, dietro il desiderio di partecipare a riti che promettevano guarigione e cambiamento, ci fosse una qualche insoddisfazione o un certo malessere di cui nessun adulto si era accorto.
Forse se Alex non fosse stato così solo, anche se attorno a lui ruotavano tante persone, non sarebbe finito nelle mani di quegli impostori e sarebbe ancora vivo.
Forse tutti quanti, educatori, genitori, dovremmo riprendere a fare “il nostro lavoro”: ascoltare i ragazzi, sempre più connessi e sempre più soli, assai spesso attratti da sfide estreme, pericolose e disperate (challenge on-line). Occorrerebbe seguirli, il più possibile, e cercare di comprendere il loro mondo, anche quando appare distante e incomprensibile, spiegargli la differenza tra la vita esposta sui social e la vita vissuta.
Perché è per questo che i giovani hanno bisogno degli adulti: perché li guidino nel grande mare della vita fornendo loro gli strumenti per non annegare.