Cultura

Il parassita del patrimonio culturale italiano: il provincialismo

Si è recentemente svolta la premiazione dello Strega con il trionfo della narrazione di Donatella Di Pietrantonio dal titolo “L’età fragile”.

«Il romanzo nasce da un ricordo che riguarda la sua terra, l’Abruzzo, e che ha covato a lungo come un fuoco sotto la cenere. Un tragico fatto di cronaca avvenuto tanti anni fa due ragazze uccise sulla montagna dopo una violenza sessuale, una terza ferita che diventa la scintilla per parlare di fragilità, di quanto noi esseri umani siamo precari».

La fragilità umana, che la scrittrice si impegna a riesumare dal vortice di consumismo e materialismo che invadono oggi le coscienze italiane e non solo, non si è scoperto essere un tema adeguatamente sentito e rispettato alla premiazione dei finalisti.

La presunta ipotesi di mancato apprezzamento del tema, impeccabilmente trattato dalla Di Pietrantonio, trova riscontro nell’aver acquisito la categorizzazione di “romanzo del dolore”.

Un’etichetta, che cela un’accezione negativa, che non solo non si addice a una narrazione di questa portata, ma che non ha risparmiato neanche i rimanenti finalisti tra cui Tommaso Giartosio con la sua opera “Autobiogramma”.

Lo stesso Giartosio è stato oggetto di mortificazione e sbeffeggiate da niente, poco di meno che dall’intelligenza artificiale della quale si è usufruito per riportare all’interno di un contesto culturale e letterario così rilevante la presenza, e in particolare la voce, di Italo Calvino.

Il presunto Italo Calvino in questo scenario avrebbe deriso il titolo dato all’opera da parte di Giartosio in virtù della scelta dello scrittore del 900′ di intitolare i suoi racconti Le Cosmicomiche.

Siamo quindi di fronte a uno scenario sociale dove le scelte stilistiche degli odierni scrittori sono oggetto di beffa e di mancata stima da parte di individui che in una maniera lontanamente umile ed empatica elargiscono opinioni e considerazioni.

Dovrebbe a riguardo di ciò ritornare alla memoria il concetto argomentato da August Derleth in seguito alla presentazione del testo “Skull-Face” di Robert E. Howard: “Con la sua stupidità egocentrica e sublime tipica di certe sottospecie di frustati che si dedicano alle recensioni librarie per compensare, criticando le opere dei creatori nati, la propria singolare carenza di abilità creativa”.

La carenza quale fa riferimento Derleth, stando alle osservazioni di Claudio Volpe, non è unicamente correlata all’inesistenza di talento da parte di questi “frustrati individui” ma a un’altrettanta carenza di capacità analitiche.

Volpe pertanto sintetizza le sue interessanti osservazioni asserendo che il provincialismo: “Occupa la mente di coloro che non riescono ad andare a fondo delle cose”.

Ma se dovessimo scostare il nostro pensiero critico dall’influenza di queste elucubrazioni altrui potremmo indubbiamente affondare i nostri canini assetati di giustizia e correttezza in quello che è una questione ormai palesata della dinamica: come può la società odierna, divenuta cosi attualizzata in fase di divenire, non riuscire a sradicare le radici del provincialismo dal campo letterario?

L’attacco al provincialismo non si presta ad un attacco alla provincia, in veste di immenso patrimonio culturale, ma confida nel sopprimere la ristretta apertura mentale che si amalgama perfettamente con una limitata percezione di ciò che sta al di fuori di sé.

La stessa concezione di patrimonio culturale andrebbe forse rivisitata e riadattata in virtù dell’esperienza individuale ed educativa del singolo.

Lascia un grande spazio di riflessione quanto apprendiamo dall’opera della Di Pietrantonio che rende indelebile il divario che persiste tra provincia e metropoli: “Amanda prende per un soffio uno degli ultimi treni e torna a casa, in quel paese vicino a Pescara da cui era scappata di corsa” e “i primi tempi a Milano aveva le luci della città negli occhi, ora sembra che desideri soltanto scomparire, si chiude in camera e non parla quasi”.

Dovremmo allora interrogarci su come possa la mentalità provinciale distaccarsi dall’intelletto dell’individuo se quest’ultimo fa sempre ritorno nella terra che l’ha malamente formato.

Dato quanto appena detto un’ulteriore prospettiva non potrebbe che giovare alla causa.

Eugenio Montale sosteneva che: “Le innaturali concentrazioni metropolitane non colmano alcun vuoto, anzi lo accentuano. L’uomo che vive in gabbie di cemento, in affollatissime arnie, in asfittiche caserme è un uomo condannato alla solitudine”.

Una solitudine che per quanto dolorosa risparmia i portatori di sapere della più assoluta padronanza dell’ignoranza.

E se è vero che l’ignoto spaventa potremmo allora concordare che coloro che vengono pervasi da questo modus operandi, in un modo che sfugge alla ragione umana, provano a tutelare il loro “io” e il loro “sé” dall’unico ambito di ordinarietà che andrebbe realmente abbracciato e tutelato: il patrimonio intellettuale.

Si direbbe assurdo, e in ciò troviamo il supporto di Ezra Pound, che la diffusione della cultura avanzi con fatica in contemporanea all’era della globalizzazione.

“Quasi che l’Italianità sia un marchio contro tutto ciò che è diverso e che proviene da fuori. Il diverso suscita sospetto, competizione”.

E sono proprio queste parole a riportare alla luce quanto accaduto nel 1966 quando Mike Bongiorno al Festival di Sanremo derise i Yardbirds asserendo con: “Pensate, si chiamano gallinacci” screditando quelli che di lì a poco sarebbero diventati i Led Zeppelin ovvero una delle band storiche della musica rock.

Alla luce di ciò il quesito ultimo da scrutare è: quanto ancora la letteratura italiana, e il contesto culturale in generale, saranno spettatori dello stato di alienazione di questi presunti individui che con la loro carente o addirittura assente competenza si allontaneranno da ciò che culturalmente il paese ha da offrire per ridursi ad essere parassiti del mondo, cosi come lo è il fenomeno che si erge sul loro discernimento.

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