Il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 e il silenzio assordante delle opposizioni
Il 10 giugno 1924 intorno alle ore 16.15, Giacomo Matteotti uscì a piedi dalla sua abitazione per dirigersi verso il Palazzo di Montecitorio, sede della Camera dei deputati. Secondo quanto riferito da alcuni testimoni, sul lungotevere Arnaldo da Brescia, da un’auto scesero due uomini in camicia nera e aggredirono il deputato socialista; Matteotti si difese con forza e fu necessario l’intervento degli altri per caricarlo in macchina.
Quasi due mesi dopo, il 16 agosto, il suo cadavere fu ritrovato per caso nelle campagne romane.
Il rapimento e il delitto di Matteotti suscitarono immediatamente un enorme scalpore, tra la gente comune, com’è ovvio, ma anche tra le fila degli stessi fascisti.
Matteotti infatti non era solo un avversario politico di Mussolini ma era colui, che prima ancora delle elezioni del 1924, aveva denunciato l’affare Sinclair Oil(alcuni esponenti del governo italiano avrebbero ricevuto tangenti da parte della società petrolifera). Aveva inoltre già subito sevizie in passato quando nel ‘21 era stato sequestrato nella piazza del suo paese e torturato per ore per ore.
Il giorno dopo il sequestro, il Duce appare sorpreso e perfino sconvolto: il 13 giugno parla alla Camera dei deputati affermando di non essere coinvolto nella scomparsa di Matteotti e di esserne anzi profondamente addolorato. Disse, testuali parole, “il delitto ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione”. Il giorno dopo incontra la vedova in lacrime e, mentendo, la rassicura di restituirle vivo il marito.
Sulla diretta responsabilità del Duce come mandante “materiale” del sequestro e dell’assassinio ci sono da anni opinioni piuttosto divergenti.
In effetti il sequestro sembra essere stato organizzato con modalità piuttosto rozze e inadeguate, quasi che l’assassinio fosse stato più una tragica fatalità, che una scelta politica premeditata. La stessa fossa nella quale il corpo di Matteotti fu poi ritrovato sembrava essere stata scavata con poca cura.
In merito a questo annoso dibattito possiamo citare ad esempio le interviste trasmesse dalla RAI nel 1976 ai due storici Renzo De Felice e Denis Mack Smith. Il primo che riteneva la criminalità in politica un elemento strutturale per quei tempi e il secondo che rispondeva parlando apertamente della corruzione del regime e accusava il De Felice di aver costruito con la sua biografia un vero e proprio “ monumento al Duce”.
Il dibattito sul ruolo di Mussolini (mandante o “semplice” responsabile morale) nel delitto continua in tempi più recenti.
Da poco, ad esempio, Antonio Scurati ha voluto ridimensionare la reale portata delle responsabilità diretta di Mussolini.
E’ vero che, secondo quanto riferito da Cesare Rossi nel suo celebre memoriale, Mussolini, avrebbe affermato: “Quest’uomo non deve più circolare”, riferendosi a Matteotti dopo il suo intervento parlamentare del 30 maggio; ma è noto anche che le sfuriate del Duce contro gli oppositori non erano cosa rara e non andavano sempre prese alla lettera; non è da escludere, quindi, che le sue parole siano state male interpretate che qualcuno eliminando Matteotti avesse pensato di fare un favore al capo del governo.
A prescindere comunque dal ruolo che Mussolini ebbe nel delitto, dopo il ritrovamento del cadavere di Matteotti, il fascismo vive sicuramente le sue ore più buie; il dissenso serpeggia anche tra le fila del partito stesso; Filippo Filippelli e il già citato Cesare Rossi scrivono memoriali nei quali accusano il duce di essere il mandante del delitto; lo stesso De Bono, all’epoca capo della Milizia Volontaria per la sicurezza nazionale, viene costretto alle dimissioni da Mussolini per i toni troppo accesi assunti nella polemica.
Il Duce si trova su un precipizio e si trova da solo.
Alcuni avrebbero potuto aiutarlo. Ad esempio D’Annunzio avrebbe potuto parlare in suo favore: ne aveva il carisma e anche la fama. Ma il Vate è, in quegli anni, politicamente un uomo finito: si è ritirato al Vittoriale ed è ormai irrimediabilmente deluso da Mussolini, come un maestro di fronte ad un allievo promettente che si è poi rivelato inadeguato.
Il sequestro però sembra finalmente risvegliare le opposizioni (socialista, cattolica e liberale): si riuniscono il 27 giugno in una sala di Montecitorio con l’intenzione di boicottare i lavori parlamentari fino allo scioglimento delle organizzazioni fasciste. Si tratta della famosissima “secessione dell’Aventino” (con chiaro riferimento a quella omonima della plebe romana).
Nel giugno del ‘24 Amendola scrive ad esempio sul «Mondo»: “Quanto alle opposizioni, è chiaro che in siffatte condizioni, esse non hanno nulla da fare in un Parlamento che manca della sua fondamentale ragione di vita. […] Quando il Parlamento ha fuori di sé la milizia e l’illegalismo, esso è soltanto una burla”. Annuncia che non avrebbe partecipato alle attività parlamentari fino a quando non fosse stata ripristinata la legalità e promuove insieme al socialista Filippo Turati una linea di opposizione non violenta al governo,
Gli aventiniani si aspettano l’appoggio della folla indignata e soprattutto si aspettano l’aiuto de re.
Vittorio Emanuele III era appena tornato in Italia dopo un viaggio in Spagna e alla lettura delle prime relazioni scritte sul caso Matteotti affermò: “Io sono cieco e sordo. I miei occhi ed i miei orecchi sono la Camera ed il Senato”. Si narra inoltre di un lungo colloquio tra Mussolini ed il Re nei giorni che seguirono la scomparsa del deputato. Inoltre in merito al destino del Duce la risposta di Vittorio Emanuele III era sempre la stessa: “Provocate le dimissioni di Mussolini ed io risolverò la situazione”. In concreto Vittorio Emanuele era pronto ad agire esclusivamente di fronte ad una sfiducia nei confronti del governo. E paradossalmente la stessa persistenza della secessione aventiniana rendeva di fatto impraticabile tale strada. A novembre le sinistre elaborano un ricco dossier sul caso Matteotti. Il tutto fu consegnato al Re da Bonomi. Pare però che il Re non abbia neppure voluto consultare le carte:”Io non sono un giudice. Non sono competente”, questa fu la sua risposta.
Perché dunque “l’Aventino” fallì?
Con il senno del poi è facile rintracciare alcuni macroscopici errori.
Lasciare la Camera quando già da tempo Mussolini aveva il quasi totale controllo della stampa fu senza dubbio una scelta errata. Significava lasciare “il campo di battaglia” libero per l’avversario.
Aspettarsi poi l’aiuto da un re, che si era già dimostrato così pavido e cinico durante la marcia su Roma, fu sicuramente un altro grave errore di valutazione; non dimentichiamo tra l’altro che gli aventiniani erano in parte socialisti; Vittorio Emanuele III li temeva e non li appoggiava. Per lui un governo di destra rappresentava in ogni caso le istanze monarchiche ed industriali del paese e in Italia non si erano ancora spenti gli echi del biennio rosso.
L’Aventino dunque fallì perché era arrivato troppo tardi. Forse aveva sottovalutato la posta in gioco. Forse un’opposizione forte e chiara implicava grande coraggio.
E la morte di Matteotti faceva troppa paura.
Mussolini dal canto suo stava cercando in ogni modo di operare una normalizzazione nel paese mantenendo sempre la calma. Organizzò un rimpasto nel governo inserendo diversi ministri liberali. Esautorò il quadrumviro De Bono da Capo della Polizia. Infine impose alla Milizia Fascista di divenire parte integrante delle Forze Armate.
Si arriva così al fatidico discorso alla Camera del 3 gennaio del 1925 che segnò per l’Italia un vero e proprio punto di non ritorno.
L’aula è piena, anche se i secessionisti non sono presenti. Quando il Duce entra il silenzio è tombale. Mussolini sfida subito i deputati a portarlo davanti alla Suprema Corte di Giustizia in base all’articolo 47 dello Statuto Albertino. Di fronte al silenzio procede:
“Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento ad oggi…”
Gli oppositori erano sparsi per i corridoi, solo Giolitti era presente in aula. C’erano Eugenio Chiesa, Emilio Lussu, Arturo Labriola e Giorgio Amendola.
Non c’è in aula nessuna voce che accusi il Duce; nessuno si alza a puntare il dito, solo entusiasmo e battiti di mani.
E grida: “Viva il Duce”.
Qualcuno avrebbe potuto rientrare in aula, urlare, manifestare il dissenso, l’orrore.
Ma nessuno rientra, nessuno parla. Il profilo rimane basso. Solo sussurri nei corridoi.
Nessuno capisce davvero cosa stia accadendo.
“Signori! Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il Fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora. Non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. Voi state certi che nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area. Tutti sappiamo che ciò che ho in animo non è capriccio di persona, non è libidine di Governo, non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la Patria”.
Il 3 gennaio del 1925, tra gli applausi scroscianti e prolungati degli accoliti del Duce e l’assordante silenzio delle opposizioni, l’Italia entra a pieno titolo nell’era del totalitarismo fascista.