Il delitto Matteotti: dalla secessione aventina alle leggi “fascistissime”
Le ricorrenze per il centenario della morte di Giacomo Matteotti costituiscono un momento significativo per riflettere sulla sua opera e sul suo pensiero politico, i quali hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia italiana del Novecento e sul nostro immaginario collettivo. Infatti, pochi politici italiani hanno ispirato sentimenti patriottici così profondi e duraturi legati alla lotta incondizionata e alla denuncia intransigente della corruzione e della violenza in nome della libertà.
«Oppositore, intelligente e irriducibile» come lo definì l’intellettuale antifascista Piero Gobetti, Matteotti cercò, da socialista riformista e parlamentare, di mettere in guarda l’Italia dai pericoli e dall’oscuro presagio della dittatura che prefiguravano le violenze e i soprusi compiuti dal fascismo. Egli ne comprese l’inclinazione totalitaria denunciando i falsi miti propugnati dalla propaganda, e ne palesò la reale predisposizione all’accaparramento di potere, atteggiamento ormai lontano dalle originarie ideologie socialiste su cui il Pnf affondava le proprie radici.
Una rilettura dei suoi discorsi parlamentari e dei suoi scritti, tra cui possiamo citare La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici e Un anno di dominazione fascista, fa emergere il metodo di studio ed analisi concreta, “dati alla mano”, che caratterizzò l’agire politico del giovane deputato, il quale, con accuratezza da reporter, registrò e denunciò le violenze compiute dalle camicie nere contro i braccianti e i piccoli contadini, o ancora i favori concessi dal Partito alla grande borghesia in cambio di sostegno politico ed economico all’indomani della Grande Guerra, azioni spesso rimaste impunite grazie ad una silenziosa connivenza degli organi di governo.
Il 10 giugno 1924 alle quattro e mezza Matteotti uscì dalla sua casa in Via Pisanelli alla volta della biblioteca di Montecitorio, luogo in cui avrebbe completato il discorso destinato al giorno successivo, e lungo la strada incontrò i suoi assassini capeggiati da Amerigo Dumini e Albino Volpi. Il cadavere, ormai in decomposizione, venne trovato più di due mesi dopo, il 16 agosto, a una ventina di chilometri da Roma, e venne riconosciuto dalla moglie, da Enrico Gonzales, e da Filippo Turati, il quale scrisse con dolore ad Anna Kuliscioff che: “Tutto è distrutto. Non c’è più neppure lo scheletro, ma soltanto tibie, femori, costole, ossa disperse e il teschio”.
La morte di Matteotti scosse le fondamenta del governo pubblicamente accusato di essere il mandante dell’assassinio, per tutto l’autunno seguente sembrò che la parabola fascista stesse per finire poichè la conferma che il Fascismo utilizzasse la violenza come strumento di affermazione del potere aveva gettato delle ombre oscure sull’operato del Duce. Solo il 3 gennaio 1925 quest’ultimo pose fine alla questione dichiarando la propria responsabilità in merito a quel delitto : “Se il fascismo è stato ed è un’associazione a delinquere, io sono a capo di questa associazione a delinquere. Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato.”
Nonostante il trambusto generale e la Secessione aventina, i partiti di sinistra non furono capaci di agire e far volgere quel momento a proprio favore, ciò fu dovuto sia alle scissioni interne all’ala socialista e comunista, che alla speranza di una pacificazione nazionale ad opera della “vecchia guardia” costituita da Salandra e Giolitti. Tale crisi toccò il suo acme nella seduta del Consiglio dei ministri, tenutasi il 30 dicembre 1924, durante la quale i ministri Sarocchi e Casati chiesero le dimissioni del Governo, per poi essere costretti essi stessi ad abbandonare il parlamento nel dicembre dell’anno successivo. La secessione aventina durò anche dopo il discorso del 3 gennaio, per poi essere definitivamente stroncata dalle parole del Duce che la definì “secessione anticostituzionale, nettamente rivoluzionaria […] una sedizione […] a sfondo repubblicano”.
Mussolini decise di non perder più tempo e di attuare delle misure legislative che riuscissero con celerità a consolidare la sua scalata al potere, rendendola irreversibile. Il definitivo trapasso dal sistema democratico-liberale a quello autoritario-dittatoriale formalmente si concretizzò con la promulgazione, tra il 1925 e il 1926, di un corpus di atti normativi ricordati come “Leggi fascistissime”.
Tali leggi furono precedute dai lavori della Commissione Soloni, incaricata nel settembre 1924 di studiare delle riforme costituzionali miranti a rinnovare il complesso sistema di rapporti esistente tra potere legislativo ed esecutivo. Le proposte elaborate dalla Commissione furono però deludenti, poiché contrariamente a quanto espressamente richiesto dal Duce, il quale voleva limitare i poteri del Parlamento, di fatto ne riconfermavano, seppur in modo assai limitato, il potere esecutivo.
Con la legge n. 2263 del 24 dicembre 1925 sui poteri del Capo di Governo, si verificò la definitiva sovrapposizione tra Fascismo e Stato, poiché venne modificato lo Statuto Albertino e sciolto il nodo riguardante il nesso tra potere esecutivo e legislativo. Infatti, venne stabilita la supremazia del primo sul secondo, poiché il Capo di Governo (termine che apparirà per la prima volta proprio su questo documento) diveniva l’unico responsabile dell’indirizzo politico dello Stato di fronte al re. L’Italia si apriva così ad un nuovo modello costituzionale che faceva del binomio Capo di Governo-Sovrano il proprio perno, esautorando da ogni potere sia le camere che i ministeri. Mussolini poteva così chiedere il riesame di una legge respinta dalle camere, ma soprattutto privava il Parlamento del diritto di votare la sfiducia al suo governo, proprio perché l’atto di destituzione poteva essere compiuto solo dal Re. La Camera veniva ridotta alla stregua di una platea che, in una sola giornata, approvò un disegno di legge che avrebbe condizionato in modo irreversibile gli organi della politica italiana e il loro funzionamento.
Il 31 ottobre 1926 Mussolini, che aveva subito due attentati ad opera dell’irlandese Violet Gibson nel mese di aprile e dell’anarchico Gino Lucetti nel mese di settembre, fu oggetto di una nuova aggressione da parte del bolognese Anteo Zamboni. Sebbene Mussolini non subì alcun danno, i fatti di Bologna ebbero delle importanti ripercussioni sulla disciplina dell’ordine pubblico, infatti con il regio decreto n. 1848, del 6 novembre 1926, venne promulgato il Testo Unico sulle leggi di pubblica sicurezza con cui, attraverso il pretesto della sicurezza nazionale, vennero sciolti tutti i partiti d’opposizione e privati della libertà di parole tutti gli organi di stampa che si ponessero in contrasto con l’ideologia di regime. Questi “atti amministrativi” costituirono il cuore della successiva legge n. 2008, del 25 novembre 1926, che introdusse il Tribunale speciale per la difesa dello Stato avente il compito di processare e condannare gli oppositori politici, infatti si calcola che tra 1926 e il 1943 tale organo condannò oltre 15.000 anti-fascisti al confino.
La principale e primaria ricaduta del Tribunale speciale, oltre alla realizzazione del monopartitismo, fu l’allontanamento forzato di tutti gli ex-aventini dal parlamento, i quali vennero dichiarati decaduti in massa dal loro mandato, trasgredendo l’inviolabile principio di immunità parlamentare stabilito dallo Statuto. La maggioranza, con un colpo di spugna, liquidava così ogni forma di opposizione.
Infine, con la legge n. 563 del 3 aprile 1926, fu bandito per legge anche lo sciopero e il diritto di aggregazione sindacale, materializzando l’ultimo passaggio verso quella che Mussolini definì la “fascistizzazione dello Stato”; va ricordato che a ciò si aggiunse l’obbligo per tutti i dipendenti pubblici di iscrizione al Partito Fascista, pena il licenziamento.
Nel 1928 le leggi “fascistissime” vennero integrate con altre due norme relative: al ruolo del Gran Consiglio del fascismo, il quale divenne un’istituzione dello Stato dai poteri illimitati ed un tempo appartenuti al parlamento o al re e alla nuova legge elettorale la quale prevedeva la presentazione di un’unica lista politica e che il voto non fosse più segreto.
Si concludeva così la trasformazione in dittatura del nostro Paese, che si accingeva a percorrere una delle pagine più drammatiche della sua storia.
Quanti si opposero al Regime continuarono a lavorare clandestinamente sia in patria che all’estero contribuendo con il loro sangue a rendere l’Italia uno stato moderno e repubblicano, senza mai dimenticare durante la lotta il messaggio di coraggio, libertà e senso civico di Giacomo Matteotti che sacrificò la sua vita in nome di uno dei valori fondamentali della nostra Costituzione: l’antifascismo.
Federica Romano, PhD in Scienze per il patrimonio e la produzione culturale.