Il concetto di femminicidio e la “banalità del male”
Si sono da poco conclusi due processi che hanno avuto un’enorme eco mediatica: quello contro il barman di Senago, Impagnatiello, e quello contro il giovane studente di Torreglia, Turetta.
Entrambi i processi si sono conclusi con la stessa sentenza: ergastolo.
È chiaro che con queste due sentenze la giustizia italiana ha voluto dare un segnale chiaro: le donne non si uccidono. Mai. Per nessun motivo.
Qualche riflessione però, dopo l’emissione delle sentenze, è opportuno farla.
L’enorme quantità di omicidi avvenuti in ambiente familiare a carico di donne di diversa età ha portato negli ultimi anni alla nascita di un vocabolo nuovo: “femminicidio”, proprio per sottolineare l’idea che questa tipologia di delitti, derivando da una specifica cultura patriarcale e arcaica, abbia caratteristiche proprie, che li differenziano da altri omicidi.
Tuttavia ogni forma di generalizzazione porta con sé gravi pericoli.
Quello ad esempio di fare il processo a un’idea più che a una persona in carne ed ossa.
Hanna Arendt nel suo famoso saggio del 1963, “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, aveva messo bene in guardia i rischi che si corrono quando si intraprende una strada di questo tipo.
Nel 1960 a Buenos Aires il criminale nazista Adolf Eichmann fu rapito dal Mossad e trasportato in Israele per essere processato. La filosofa e scrittrice, inviata dal The New Yorker per assistere al processo, aveva evidenziato il pericolo che correvano i giudici israeliani che dovevano occuparsi del processo, sottolineando la necessità di processare l’uomo Eichmann, e non il nazismo come fenomeno storico-culturale. Non fu ascoltata, e dopo aver pubblicato i suoi articoli sul The New Yorker ricevette numerose lettere minatorie con le quali la si accusava di non essere dalla parte del popolo ebraico (lei era ebrea e si era rifugiata in America durante l’Olocausto) e le si chiedeva perfino di ritirarsi dall’insegnamento universitario.
Si tratta certo di un tema, di un periodo storico e di un argomento del tutto diversi da quello che è oggetto di questo articolo; tuttavia il termine “femminicidio” trascina con sé proprio i pericoli da cui la Arendt voleva metterci in guardia: quello di fare il processo a un’idea.
Senza voler entrare nel merito della sentenza (che, com’è giusto che sia, è di competenza della magistratura) i due femminicidi perpetrati ai danni di Giulia Tramontano, il primo, e di Giulia Cecchettin, il secondo, puniti con la stessa pena, presentano in realtà caratteristiche molto diverse tra loro; nel primo caso ci troviamo di fronte ad un uomo di 35 anni, già adulto e perfino padre di un bambino, che con lucidità e crudeltà ha imbrogliato e mentito, ha avvelenato per mesi la sua compagna incinta e cercato di bruciarne il cadavere, per poter avere via libera nella nuova relazione intrecciata con la giovane e bellissima amante. Durante gli interrogatori l’assassino ha più volte parlato della vittima e della nuova compagna definendole un “vanto”, come se le due donne fossero dei trofei da sfoggiare e non persone in carne e ossa. Se si parla di patriarcato, il delitto di Senago può sicuramente rientrare in questa categoria. Nel secondo caso, quello di Turetta, invece c’è un ragazzo, maggiorenne è vero (ma chi può davvero dire, in un’epoca caratterizzata dalla fragilità emotiva, che oggi uno studente di ventun’anni è davvero un adulto?), che stava male. Che era fragile e ossessionato. Che pensava di non valere niente (lui stesso ha più volte affermato durante gli interrogatori di essere stato sempre un solitario e che Giulia era la sua prima ragazza) e che senza Giulia la sua vita non avrebbe più avuto senso. Lo pensava con l’intensità propria dei giovani: quando ogni sentimento è totale e assoluto; quando non si vede via d’uscita al proprio dolore; quando non si sa che a tutto c’è un rimedio e che a tutto si sopravvive.
Filippo non ha chiesto aiuto; così come non ha chiesto aiuto la sua vittima, Giulia, tormentata notte e giorno dalle pressanti richieste e dal controllo del suo ex fidanzato.
Nessuno si è accorto di tutto questo dolore: né i genitori, né gli amici, né il fratello di Filippo (quest’ultimo, intervistato, ha detto di aver passato parte delle sue giornate fuori casa e di non essersi mai reso conto di ciò che passava nella mente del fratello). E nessuno si è accorto del dolore di Giulia che si dibatteva in una situazione più grande di lei, combattuta tra la sua sana voglia di libertà e i sensi di colpa che provava per Filippo (e che Filippo le faceva provare).
Solo poco tempo prima del delitto il ragazzo aveva cominciato ad essere seguito da uno psicologo (in un’epoca la nostra in cui ancora chiedere aiuto viene visto come una debolezza e gli psicologi sono “roba” per i matti).
Forse se qualcuno si fosse accorto di quanto Filippo stesse male, senza lasciarsi trarre in inganno dal suo aspetto da bravo ragazzo, dagli esami superati all’università e dal fatto che non “aveva mai dato problemi prima”, e di quanto stesse male anche Giulia che non riusciva a liberarsi da un rapporto malato, ben due persone si sarebbero salvate: Giulia e Filippo. Anzi no! Più di due, perché questa vicenda coinvolge anche le famiglie della vittima e dell’assassino (il padre di Giulia, così pacato nelle sue affermazioni su Turetta, e i genitori di Filippo che non si raccapezzano ancora del fatto che una simile tragedia sia potuta accadere proprio a loro).
I due femminicidi, dunque, sono profondamente diversi l’uno dall’altro, fosse solo per l’età dei due assassini: il primo un uomo fatto e compiuto e il secondo un ragazzo poco più che adolescente; e non potrebbe essere altrimenti perché ogni assassino è diverso dall’altro, ha una sua storia e le sue motivazioni, benché assurde e distorte.
Perché ogni uomo è sempre diverso dall’altro e mai la sua vita e le sue azioni possono essere riassunte in un vocabolo solo.
Nel 1764 Cesare Beccaria, nel celebre “Dei Delitti e delle pene”, diceva che la giustizia non deve mai sostituire la vendetta privata con una vendetta di Stato. Il carcere deve rieducare il reo e restituirlo alla società consapevole del delitto commesso e in grado di riprendere il suo cammino all’interno dello stato. Hegel parla addirittura della pena come di una “riaffermazione potenziata del diritto”, proprio perché grazie alla pena il reo comprende, interiorizza e supera l’errore commesso. Può un ergastolo essere considerato una pena “rieducativa”, soprattutto quando il reo è in giovane età?
Quanto ha influito, inoltre, nelle decisioni dei giudici l’enorme eco mediatica che ha accompagnato questi processi, che trova le sue radici nel voyerismo della gente che addita il mostro fuori da casa propria, per evitare di trovarlo magari dentro di sé?
La gogna mediatica aveva già condannato Impagnatiello e Turetta (e con loro tutti gli altri autori di femminicidi) ancor prima che i processi avessero inizio (dimenticando che in uno stato di diritto, qual è l’Italia per fortuna, un uomo può essere considerato colpevole solo a processo concluso).
Certo si potrebbe obiettare che in Italia le carceri difficilmente sono un luogo di cura e rieducazione; che sono sovraffollate e che spesso si esce dalla prigione ancora più violenti di quando si è entrati. Ci sono stati casi eclatanti di assassini che usciti dal carcere hanno continuato a delinquere (come non ricordare ad esempio Angelo Izzo, autore insieme ad altri dell’efferato delitto del Circeo, che una volta rimesso in libertà ha ucciso di nuovo con inaudita violenza?). Ma questa riflessione dovrebbe portarci a batterci per una seria riforma del sistema carcerario, più che spingerci ad invocare il “fine pena mai” o il “buttate le chiavi”.
Dopo aver ascoltato la sentenza di condanna per Turetta, Gino Cecchettin ha detto: “La mia sensazione è che abbiamo perso tutti come società…È stata fatta giustizia – ha aggiunto – la rispetto, ma dovremmo fare di più come esseri umani. La violenza di genere va combattuta con la prevenzione, con concetti forse un po’ troppo lontani. Come essere umano mi sento sconfitto”.
Perché, per tornare alla Arendt, il male è banale e può nascondersi in ogni famiglia e in ognuno di noi e la punizione da sola non può bastare.