Giovinezza, sole che sorge, rivoluzione (col permesso del papa)
Quando scrisse “Giovinezza”, inno dei laureandi, Nino Oxilia non immaginava certo che il canto goliardico, intriso di gioia, nostalgia e impegno civile, come Piemontesina bella, un giorno sarebbe stato capovolto in carme bellicoso: dapprima tra gli alpini, poi negli arditi e infine dai “fasci di combattimento”. A quel punto, tra il 1919 e il 1925, quando il Direttorio Nazionale fascista ne fece l’inno ufficiale del partito, di Addio Giovinezza, la commedia messa in scena da Oxilia e Sandro Camasio (Isola della Scala, Verona, 1886-Torino, 1913) non rimaneva che un vago ricordo. La Belle Epoque era un lontano ricordo. Di mezzo vi era stato l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra, con devastanti ripercussioni su istituzioni, economia, assetto sociale e sulla demografia. Nei 41 mesi dall’intervento alla Vittoria del 4 novembre 1918, tra giovani “di leva”, richiamati e mobilitati anzitempo vennero messi in divisa circa cinque milioni e mezzo di italiani sino ai “Ragazzi del ’99” e ai giovani nati nel 1900, addestrati e mandati al fronte nell’ultima estate di guerra. L’epidemia di “spagnola” aggiunse altri 600.000 morti da un capo all’altro del Paese.
“Giovinezza…”. Genesi e metamorfosi di quel canto, narrate da Patrizia Deabate nei Canti brevi di Nino Oxilia (Neos, 2014), sono paradigma della storia d’Italia: convulsa, segmentata, sequenza d’imprevedibili colpi di scena, spesso frutto d’improvvisazione. Ne abbiamo l’esempio sotto gli occhi: un presidente del Consiglio dei ministri passato dall’una all’altra maggioranza parlamentare (non nei sondaggi) e pronto a capitanarne una terza e una quarta, tra disastro del sistema sanitario e indebitamento pubblico agghiacciante … Sarà disinvoltura o spudoratezza? Mesi addietro (ma sembrano ormai passati anni, tanti sono i pessimi ricordi dei mesi scorsi e gli incubi per quanto verrà) il Paese era invitato a cantare dai balconi e dalle finestre per fermare il Maligno. A ore fisse, come i canonici al Vespro. Attoniti e mascherati, adesso gli italiani tacciono. La loro fiducia nel tante volte annunciato “nuovo inizio” è crollata: lumicino, tra le multicolori palle natalizie.
Le “parole d’ordine” per mesi diffuse dagli altoparlanti governativi non incantano più. Incartati i torsoli d’insalata nelle vecchie autocertificazioni per uscire di casa, i cittadini hanno esaurito il toner della pazienza. Non credono, poco obbediscono, provano ancora a combattere in modo civile: pensare con la testa propria anziché con quella di governanti imprevidenti e di tecnici sanitari speranzosi, litigiosi e quindi inaffidabili.
…e Inno a Roma
Nel 1919, lo stesso anno in cui i fasci scipparono Giovinezza ai goliardi, molti dei quali iscritti alla gloriosa “Corda Fratres”, la Federazione internazionale studentesca inventata dal geniale canavesano Efisio Giglio-Tos, su sollecitazione del sindaco di Roma Prospero Colonna il già celeberrimo Giacomo Puccini musicò l’Inno scritto dal librettista e poeta Fausto Salvatori, ispirato dal Carme secolare di Quinto Orazio Flacco. Doveva essere cantato nel Natale di Roma, il 21 aprile. La sua “prima”, però, venne rinviata a causa di uno dei tanti “scioperi” che affliggevano l’Italia e la sua capitale. Il ritornello di quel Canto Novo sgorga dal petto: “Sole che sorgi, libero e giocondo/, sul Colle nostro i tuoi cavali doma:/ tu non vedrai nessuna cosa al mondo/ maggior di Roma”. Ve n’era bisogno nello sconquasso postbellico. Altrettanto vale oggi, anche se quell’“Inno al Sole” è sconsigliato perché, al pari di “Giovinezza”, riecheggiò nei cerimoniali del regime di partito unico. Ma se così dovesse essere, bisognerebbe gettare alle ortiche il novanta e più per cento della tradizione musicale e coreutica italiana, compresi Il Piave, Va pensiero, Si scopron le tombe, si levano i morti e anche Il canto degli Italiani musicato da Michele Novaro, ora inno nazionale, tutti ordinariamente eseguiti nel “famigerato ventennio”.
L’“Inno a Roma” (parole di di Fausto Salvatori, musica di Puccini) non ha proprio nulla di “fascista”, né di “dittatoriale”. È il punto di arrivo della cultura risorgimentale che mirò ad annodare la Nuova Italia con quella dei Cesari e con l’età dei Liberi Comuni e delle Signorie, del Rinascimento. Dopo quella degli Augusti e dei Papi la Terza Roma era, voleva, doveva essere capitale della Scienza, della Ragione e, perché no?, della Gioia,espressionedellaLibertà, evocata dal massone Schiller nell’Inno fatto proprio da Ludwig van Beethoven nel finale della Nona Sinfonia.
Ne era convinto il compositore Franco Alfano (Napoli, 1875-Sanremo, 1954), poi famoso per “La leggenda di Sakuntala” (1921) e del “Cyrano di Bergerac” (1936). Durante uno dei soggiorni nel Ponente Ligure, in specie a Bordighera (cara alla Regina Margherita), Alfano fu iniziato massone nella loggia “Achille Ballori” di Sanremo. Il suo diploma “ne varietur” venne iscritto nei registri del Grande Oriente d’Italia al numero 53.583.
Aggredito da un tumore all’epoca incurabile e dopo un intervento estremo a Bruxelles, Puccini morì lasciando incompiuta “Turandot”, l’opera che lo impegnava dal fatale 1919. Su designazione di Arturo Toscanini, il suo completamento fu affidato ad Alfano, che superò la prova sulla traccia degli “appunti” pucciniani. La prima rappresentazione dell’opera fu diretta proprio dal celeberrimo Maestro, che la interruppe al termine della composizione originaria, per rispetto verso Puccini, non certo per sgarbo nei confronti di Alfano, da lui apprezzato.
Nel 1919 Toscanini era stato tra i propugnatori della fondazione dei fasci di combattimento nella famosa adunata a piazza San Sepolcro il 23 marzo. Per molti “sansepolcristi” il fascio riecheggiava la Sinistra democratica ottocentesca, guidata da Giuseppe Garibaldi, che in decine di lettere e discorsi incitò i “veri liberali” a mettere da parte le rivalità personali e di ascrizione (mazziniani, federalisti, antichi carbonari, settari delle più disparate “Obbedienze”) e a unirsi in un unico “fascio” sotto le insegne della Massoneria: esattamente l’opposto di quanto programmato da Mussolini dopo l’intesa con Luigi Federzoni, Enrico Corradini, Alfredo Rocco, Maurizio Maraviglia e gli altri esponenti del nazionalismo, in gran parte clericali. Sapevano a memoria tutto Carducci, maestro e vate della Nuova Italia, ma non lo avevano capito.
Mussolini rivoluzionario, col permesso del papa
Lo ha ricordato con lapidaria incisività il novantaduenne Giorgio Galli nell’introduzione al ciclo di incontri (in videoconferenza) sul “Fascismo magico” organizzato dall’Istituto di studi politici e internazionali (Milano) e coordinato da Daniele V. Comero, Vinicio Serino e Ottorino Maggiore van Beest. Politologo celebre per aver definito il sistema politico italiano postbellico come “bipartitismo imperfetto” stante l’impossibile alternanza tra la Democrazia cristiana e i suoi alleati centristi, da una parte, riparati sotto l’ombrello degli USA, e dall’altra il Pci, eterodiretto da Mosca, da decenni Galli indaga il nazismo magico, l’esoterismo soggiacente alla politica e, in saggi scritti con Mario Caligiuri, Come si comanda il mondo e Il potere che sta conquistando il mondo (ed. Rubbettino, 2020). Galli non ha dubbi: quella di Mussolini fu una “Rivoluzione col permesso del Papa”. Una farsa di ateo pentito.
Mentre anche molti “fascisti” combattevano i clericali e rivaleggiavano con la Carta del Carnaro di Gabriele d’Annunzio proponendo la confisca dei beni ecclesiastici, l’introduzione del divorzio, il diritto di voto femminile, l’emancipazione delle donne, la giornata lavorativa di otto ore (antica richiesta dei socialisti, dalle cui file arrivava Mussolini e alle quali approdò Pietro Nenni, originariamente repubblicano e suo sodale), sotto sotto il futuro Duce sin dal 1922 aveva preso a trescare con la Santa Sede tramite padre Pietro Tacchi Venturi, che tessé i rapporti tra lui e il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Gasparri, e nel 1938, alla vigilia dell’approvazione delle leggi razziali, glielo ricordò per ottenere la discriminazione dei “matrimoni misti” tra ebrei convertiti a cattolicesimo e “ariane” (o tra “ariani” ed ebree cattoliche): dove era chiara l’identificazione tra “razza” e “religione” con tutti i pregiudizi secolari.
Alle elezioni del 16 novembre 1919 Mussolini subì una sconfitta clamorosa. Nella circoscrizione elettorale di Milano la sua lista, comprendente Toscanini e Guido Podrecca, già fondatore di “L’Asino”, settimanale satirico ferocemente anticlericale, e altri candidati niente affatto antidemocratici, raccolse appena 5.000 voti. Egli stesso racimolò 2.500 preferenze. Un risultato umiliante. Ma, come ha documentato Renzo De Felice, non si dette affatto per vinto. Per lui valeva la regola degli estremisti di tutti i colori: tanto peggio, tanto meglio. Dalla sua parte aveva la crisi politico-sociale, la scioperomania, l’inconcludenza dei governi e soprattutto le ripercussioni della suddivisione dei seggi alla Camera in proporzione ai voti ottenuti dai partiti, la “maledetta proporzionale” (come la definì Giolitti) voluta da Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare italiano, dai socialisti e da liberali di belle speranze, che confondevano l’“eloquenza parlamentare” con la “politica”. Lo stesso del resto accade oggi, con l’uso stucchevole di formule ripetitive, di passettini per i corridoi dei Palazzi verso scrivanie ingombre di sudate carte e di sguardi corrucciati in assenza di programmi ponderati e attuabili. Il disastro generato dalla “proporzionale” è documentato da Gianpaolo Romanato in 1919-2019. Riforme elettorali e rivolgimenti politici in Italia, completo di un acuto saggio di Marco Follini (ed. Cierre per la Casa Museo Giacomo Matteotti di Fratta Polesine).
Con quelle premesse il 30 ottobre 1922 il trentanovenne Mussolini ebbe l’investitura a presidente del Consiglio dei ministri da Vittorio Emanuele III, su consiglio di tutti i maggiorenti delle forze politico-sociali-economiche non antisistema del Paese. La vera “marcia” non fu “su Roma” ma “in Roma”: dal Vaticano in Italia. Non con i manganelli ma con ceri e aspersori. I partiti che a metà novembre votarono la fiducia al governo Mussolini erano il guazzabuglio che aveva impedito a Giolitti di governare: i popolari di don Sturzo, il grappolo acido di liberali (solo nell’ottobre 1922 nacque il Partito liberale italiano presieduto dal dimenticato Borzino), i demosociali del teosofo Colonna di Cesarò. Come da vent’anni, i socialisti di Turati, Treves, Modigliani e di Giacomo Matteotti (freschi dell’ennesima scissione) rimasero spettatori.
Nicola Di Modugno, Vinicio Serino e altri nell’Incontro del 12 novembre su “Mussolini e movimenti esoterici e iniziatici”, hanno ricordato che il 19 gennaio 1923 la Santa Sede passò all’incasso. Entrando da ingressi separati il cardinal Gasparri e Mussolini (accompagnato da Giacomo Acerbo, grado 30° della Gran Loggia d’Italia e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio) si incontrarono nel palazzo del conte e senatore Carlo Santucci, presidente del Banco di Roma, ancora una volta sull’orlo del fallimento, e ne concordarono il salvataggio con l’intervento del governo “al di qua del Tevere”. In aggiunta, il Duce del fascismo si impegnò a mettere al bando la Massoneria, che dagli albori del Risorgimento rappresentava l’alternativa radicale alla Chiesa cattolica. Non era un partito qualunque ma un’Idea Universale. Non era una fazione, come i nazionalisti, ma la promotrice e custode della Nazione. Però Roma non poteva contenere due Città Eterne: doveva scegliere quale incarnare.
Convinto che in fondo era solo questione di “metalli”, in cambio del Potere Mussolini non ebbe difficoltà alcuna a sbarazzarsi degli odiati massoni. Non solo. In Italia non potevano esserci due depositari dell’Idea di Nazione. I democratici persero la partita con la riunione del Gran consiglio del fascismo che a metà febbraio del 1923 deliberò l’incompatibilità tra fasci e logge, che pur contavano parecchi “fascisti dell’origine”, mangiapreti della peggior risma. In quella seduta i grandi consiglieri vennero istruiti da uno spretato che per primo aveva pubblicato in Italia gli infami “Protocolli dei Savi Anziani di Sion” e che il Duce, superstizioso assai, evitava di vedere e di nominare. In effetti quell’ex reverendo non gli portò bene. Lo incalzò sino agli ultimi giorni della Repubblica sociale.
Gran Consiglio di cosa?
Ma che cos’era il Gran Consiglio? Nient’altro che la riunione privata di maggiorenti del Partito fascista, priva di valore istituzionale, come la “cabina di compensazione” prospettata due anni addietro dal famigerato “Programma per il governo” sulla cui base nacque il Conte I, con Cinque Stelle e Lega. Però con la legge 9 dicembre 1928, n. 2963 il consesso venne “costituzionalizzato” e proclamato “organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del regime sorto dalla Rivoluzione dell’ottobre 1922”, con “funzioni deliberative nei casi stabiliti dalla legge”. Comprese i quadrumviri della leggendaria Marcia su Roma, i segretari del PNF, i presidenti delle Camere, il comandante della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, il presidente del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, quello dell’Opera nazionale Balilla e altri. Un numero cangiante, dunque. Anzi, pletorico. Nel 1929 contò sedici membri a tempo illimitato e ben 29 “a cagione delle loro funzioni”. Nel loro novero si contavano parecchi massoni “in sonno”: Italo Balbo, Giuseppe Belluzzo, Roberto Farinacci, Achille Starace e altri, desti a giorni alterni…Con alcuni poteri deliberanti sul Partito e la facoltà di “esprimere pareri” su questioni più importanti, benché immaginato come Terza Camera il Gran Consiglio non fece mai nulla di veramente importante. Non per caso ne manca una vera “storia”. La legge istitutiva stabilì anche che i suoi membri non potevano essere arrestati né sottoposti a procedimento penale senza autorizzazione del consesso medesimo. Ciò non impedì a Vittorio Emanuele III di prendere le misure necessarie nei confronti del Duce il 25 luglio 1943. Né fu di ostacolo, nel gennaio dell’anno dopo, alla condanna a morte e alla fucilazione al poligono di Verona di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, e di altri componenti del Gran Consiglio, colpevoli di aver messo Mussolini in minoranza.
Giorgio Alberto Chiurco scrisse cinque volumi sulla “Rivoluzione fascista”, che era e rimase un orpello retorico. A inizio Novecento l’idea di Italia prese corpo in alcuni edifici simbolici, come l’Altare della Patria e il Palazzo di Giustizia (poi sede della Corte di Cassazione), istoriati con gli emblemi della Romanità, ispirati all’Ara Pacis di Augusto, alle Colonne di Traiano e di Antonino Pio, ai Fori imperiali…: nessun cenno alla Roma dei Papi. Ma quanto avvenne nel 1922-1923 sfuggì ai più. L’Almanacco della “Ragione” per il 1923 pubblicò in copertina il fascio littorio sormontante la Cupola di San Pietro. I suoi turiferari, liberi pensatori e militanti dell’associazione Giordano Bruno, non avevano capito che ormai era tutto cambiato. La “rivoluzione” di Mussolini si risolse in una ostensione.
Oltre a concedere “metalli” al Banco di Roma e a mettere al bando la Massoneria (il cui spettro rimase il suo incubo), Mussolini imboccò la via della Conciliazione, coronata l’11 febbraio 1929: il riconoscimento dello Stato della Città del Vaticano, che fu opera anche di Pietro Tacchi Venturi (1881-1956), dal 1922 protagonista influente sui rapporti tra le due sponde del Tevere e tuttora in attesa di una biografia esaustiva.
Tratto dal giornale Pensa Libero (www.pensalibero.it) per gentile concessione dell’autore.