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Femminismo terrone

Si è recentemente tenuta la quinta edizione del Catania Book Festival 2024. Evento al quale è stata presente l’attivista ed economista Claudia Fauzia, omaggiando cosi il festival internazionale del libro e della cultura, con la presentazione del suo ultimo lavoro intitolato “Femminismo terrone” in collaborazione con Valentina Amenta.
L’ambito di interesse del testo trova valida affermazione nei campi del femminismo e dell’arduo fenomeno dell’antimeridionalismo.
È di natura inconfutabile la solida vitalità di ambedue i fenomeni nel nostro vivere comune, ciò nonostante, se i nostri spazi venissero demarcati con quale brutale realtà saremo costretti a venire a patti?
Indiscussa è certamente la relazione che lega il fenomeno dell’antimeridionalismo dalla nota, e altamente dibattuta nel corso degli anni, questione meridionale.
“Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C’è fra il nord e il sud della penisola più grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl’intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni ,il mondo intellettuale e morale” quanto riportato è stato asserito da uno dei più importanti rappresentanti del Meridionalismo Giustino Fortunato.
È incontrovertibile come la scena italiana e i filoni di pensiero dei singoli individui siano stati inadeguatamente suggestionati da simili scenari.
Indimenticabile si presta la presa di posizione assunta da Vittorio Feltri che privo di ritegno e rincrescimento palesa un crescendo di antimeridionalismo, il quale, in virtù di un solido deprimento ben eretto su antecedenti convenzioni, si scopre essere similare nelle sue peculiarità al trascorso della classe dirigente di un’Italia postunitaria.
E se volessimo accertare l’origine di una simile forma mentis da dove dovremmo partire?
La nostra assoluta meticolosità potrebbe focalizzarsi sulle vicende che pongono il poeta Giosue Carducci in uno scenario intrinseco di intolleranza razziale e xenofobia, a discapito dei colleghi Giovanni Verga e Mario Rapisardi.
Un giudizio esternato e tangibile mediante le seguenti attestazioni: ”e con tutto questo è siciliano” e “i Siciliani sono ritenuti come sopravvivenze di razze inferiori, soprattutto quando sono rapisardiani”:
Asserzioni che potrebbero presagire l’affermarsi della cosiddetta teoria della “razza maledetta” a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Ciò nondimeno la percezione di una “razza maledetta” è stata avvalorata ed elargita dal cinquecentesco detto “paradiso abitato da diavoli” pronunciato da Benedetto Croce
La suddetta “convinzione”, dai citati “diavoli”, viene deplorevolmente interiorizzata a tal punto che i medesimi meridionali attuano una dualità di ruoli intrinseca di dissennatezza, incarnando nei loro pari riguardi il carnefice e la vittima.
Sancita la discriminazione vissuta dal Sud possiamo postulare sull’ulteriore ambito di interesse della narrazione di Fauzia:“Quanto è difficoltoso essere una donna al Sud?”
“La consapevolezza di essere un soggetto marginale in quanto donna si accresce di una nuova consapevolezza: essere un soggetto marginale in quanto terrona”.
Una dinamica all’interno della quale la cognizione da parte del gentil sesso trova veridicità della sua delicata condizione tramite le doti degli estrosi.
“il destino della donna e la sua unica gloria consiste nel far battere il cuore degli uomini”.
È quanto mai plausibile che il vissuto e la massima aspirazione di una donna possa essere l’incarnare un ruolo cosi ben vestito di mortificazione per il suo non rinvenuto intelletto?
Il concetto sembrerebbe inequivocabile per Verga che nella sua ottica, concretizzata su carta, il bel sesso assume un’accezione avversa dinanzi a quella che riconosciamo come la “figura pensante”.
La contrapposizione verificatesi tra le vesti della seduttrice e della devota consorte personifica un’ipocrita dualità da spingerci a mettere i dubbio la reale esistenza di una degna coesione delle sinapsi.
Che possa il virile non essersi ancora capacitato dell’abissale divario tra la carne e il raziocinio muliebre?
Malgrado l’inconfutabile ignoranza che ci accompagna lungo la cognizione in merito alle origini di una simile ottica, valido punto di partenza solo le congetture concretizzate su carta dal padre della corrente verista Giovanni Verga, il quale nel frutto del suo operato devotamente sancisce la femmineo crudeltà.
Una perfidia operata dal donnesco, rinvenuta in opere quali i “Malavoglia”, ritenuta tale per il mancato adempimento verso i canoni prestabiliti dal consorzio, o forse dal circondario entro il quale la narrazione si estende.
Esauriente archetipo del contradditorio contrapposto che, carico di impetuosa vigoria affonda le proprie radici in un’interiorizzata educazione di stampo patriarcale praticata con fierezza da un qualsivoglia capostipite, sono gli scritti “Nedda” e la “Lupa”.
Se Nedda dal canto suo ci impone una certa riflessione verso, quel complesso di caratteri che definiscono l’aspetto e il comportamento proprio di un individuo e che gli consentono di conseguire l’associazione di “femminile” e “maschile”, la Lupa sfida le ideologiche emancipazioni sessuali portate avanti da quello che, stando a quanto assistiamo lungo le vicissitudini dell’Ottocento, è ancora percepito come il “sesso debole”.
Un sesso debole che tutto può dinanzi le sue doti di demone incantatore innanzi al quale il possente sesso pensante può solo malamente soccombere.
Seppure è vero che di una certa gracilità il tanto noto sesso debole se ne fa carico, osservando il complessivo disinteresse manifestato dalle scrittrici italiane del Novecento per le problematiche femministe.
Non passano inosservate scrittrici come Neera, Matilde Serao, Marchesa Colombi e Grazia Deledda e la loro negligenza nei confronti dei dominanti schemi attuati verso la sorte delle donne.
Il disimpegno al quale sconsolatamente siamo tenuti a osservare nei riguardi dell’assoggettamento femminile e la disparità dei diritti tra i due generi è oltremodo disarmante e avvilente.
Un’esaustiva rappresentazione della disagevole condizione in cui verte il sud, sia sul versante economico, politco e sociale che sull’affermarsi di una assodata ottica femminista, è la pellicola cinematografica “Maléna” prodotta da Giuseppe Tornatore.
La proiezione ambientata in Sicilia, a Castelcutò, elargisce una moltitudine di tematiche tramite le quali smuovere le coscienze comuni, quali l’oggettificazione e isolamento della donna da parte di una comunità fondata su preconcetti e ambiguità tipici di un distretto e urbanità di stampo fortemente patriarcale.
Una patriarcato cosi consolidato nella psiche delle fanciulle da incarnare il movente di una maligna slealtà tra soggetti appartenenti allo stesso sesso.
Se volessimo varcare i margini della sfera musicale, come ulteriore contesto di genialità e conferma di quanto stiamo asserendo, il brano “Bocca di rosa” di De André si presta ad essere un ulteriore, nonché lampante, modello dell’ostilità che pervade le relazioni femminili quando intona: “e fu cosi che da un giorno all’altro/Bocca di rosa si tiro addosso/L’ira funesta delle cagnette/A cui aveva sottratto l’osso”.
Consacrata la circostanza il quesito da porsi è: su quale dei due fenomeni occorre operare per prima, cosicché si possa influenzare l’altro i virtù del decorrere di una risolutiva e complessiva innovazione?

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