Teatro

“Esercizi di stile”: un trionfo. Anche di “liscìa” catanese

Nella Sala Futura dello Stabile etneo un’edizione sbalorditiva del capolavoro di Queneau tradotto da Umberto Eco, diretto da Emanuela Pistone e da lei interpretato con i travolgenti Francesco Foti e Agostino Zumbo. Uno spettacolo che coinvolge. E ha ritmi così serrati che allo spettatore non viene lasciato nemmeno il tempo di applaudire quanto vorrebbe. Sarebbe un delitto non riprenderlo e non mandarlo in tournee

Un trionfo di quella Parola che è pensiero e intelligenza, ironia e cultura, filosofia e leggerezza, armonia e sguaiataggine: umanità.

“Esercizi di stile” mancava da Catania dal 1983: il glorioso Piscator aveva proposto all’Ambasciatori il “Bus” tratto dal testo-capolavoro di Raymond Queneau e interpretato da quel genio del teatro che rispondeva al nome di Paolo Poli, letteralmente sommerso dagli applausi dei Catanesi, avvezzi alla liscia.

Adesso quel testo – pubblicato in Francia nel 1947 e uscito in Italia nel 1983 nella traduzione di Umberto Eco – è tornato nella Sala Futura dello Stabile etneo per un’edizione letteralmente sbalorditiva, tanto coinvolgente e dai ritmi così serrati che allo spettatore non viene lasciato nemmeno il tempo di applaudire quanto vorrebbe.

Dobbiamo quest’alchimia perfetta alla regista Emanuela Pistone, anche protagonista con gli straordinari Francesco Foti e Agostino Zumbo, che ha saputo mettere in piedi uno spettacolo probabilmente indimenticabile.

Ma torniamo alla liscia: è il nome dialettale della liscivia, sdrucciolevole liquido che, versato in strada, può provocare capitomboli tanto più esilaranti quanto più noto, ricco o potente è la vittima. E il Catanese è lisciu proprio in quanto incline all’ironia, allo sberleffo, alla risata. 

Per questo, quarantun anni fa, si appassionò al “Bus” tratto da Queneau. Quest’ultimo era un maniaco interessato alle più curiose discipline e appassionato di inventari e statistiche. E negli “Esercizi di stile” – rifacendosi alla De Utraque Verborum ac Rerum Copia, guida retorica del 1512 dell’umanista Erasmo da Rotterdam – aveva inventato un gioco meraviglioso. Come scriveva Eco nella prefazione al libro, narrava sì “un episodio di vita quotidiana, di sconcertante banalità” ma in ben “novantanove variazioni sul tema, in cui la storia viene ridetta mettendo alla prova tutte le figure retoriche (dall’epico al drammatico, dal racconto gotico alla lirica giapponese) giocando con sostituzioni lessicali, frantumando la sintassi, permutando l’ordine delle lettere alfabetiche. Con un effetto comico travolgente”.

Tipico della liscia, per l’appunto: “quantu s’i lisciu” si esclama da queste parti quando si esagera nel raccontare con sempre diverse variazioni il medesimo fatto.

Così per novantanove volte (nello spettacolo, in realtà, confessa la regista, una quarantina), il pubblico apprende di un uomo che, su un bus affollato di Parigi si lamenta con chi gli pesta i piedi e, trovato un posto libero, lo occupa. Due ore dopo, lo stesso uomo passeggia sulla Gare Saint-Lazare con un amico, che lo consiglia far aggiungere un bottone al soprabito.

Questo lapidario plot viene declinato con il massimo della liscìa sfruttando la capacità camaleontica della parola, la sua versatilità nel colorarsi di dialetti o di mutarsi, semplicemente, in suono. O anche diventare enigma da cruciverba (non a caso una nuova edizione italiana del 2001 vanta una postfazione di Stefano Bartezzaghi).

In scena, grazie alla straordinaria qualità e vitalità degli interpreti, viene incontrovertibilmente dimostrato come lo “stile” possa far mutare tutto. E torna in mente il famoso brano di Edmond Rostand in cui Cyrano elenca al visconte di Valvert tutte le maniere con cui avrebbe potuto descrivere il suo naso.

Così le parole utilizzate per narrare la vicenda del bus, scomposte e rimontate, mutate in modi di dire e figure retoriche, diventano immagini e le immagini altre immagini. Ma anche suoni, versi, circo, canzoni. Capaci di rimandate in qualche modo a quel caleidoscopio che era la meravigliosa tv degli anni Sessanta, alla Rai di un’unica rete, al Varietà di De Vico, Macario, Chiari, Bramieri e alla mimica dei mitici Gufi, che fecero conoscere all’Italia il cabaret.

In questo “Esercizi di stile” c’è tutto: dal racconto radical chic a quello popolare (volgare lo definisce Emanuela Pistone prima d’immergersi nel romanesco), dalla filosofia alle parlate regionali ed estere, dalla poesia alla retorica, da Totò a Checco Zalone.

I luoghi perdono definizione: Parigi diventa Roma, Roma trasmuta in Randazzo, con tanto di Circumetnea. Così dal bus pieno di parole, il dizionario ambulante si sposta sui binari a scartamento ridotto. E sparge sulle sciare del vulcano aferesi, anagrammi, apocopi, apostrofe, fonemi, lipogrammi, litoti, metafore, e curiose parole gergali che vanno a comporre comunicati stampa e sonetti, interrogatori (esilaranti) e persino narrazioni in latino (e non solo) maccheronico. Con tanto di canto gregoriano finale.

Insomma, un vero spasso questo spettacolo denso di Cultura finalmente non paludata. Qui tutto diventa meravigliosa irrealtà, miracolo: il pubblico resta incantato, pregustando, con il fiato sospeso, le sempre nuove trovate del testo. E gli ingranaggi dello spettacolo si mostrano perfettamente sincronici, come nel miglior orologio svizzero. Sembrerebbe quasi che quei tre “ragazzi” sulla scena abbiano provato e riprovato quel copione da quarant’anni.

Un’altra favola, probabilmente.

Ma il miglior Teatro è sempre magia.

E diversi incantatori hanno “vestito” questo “Esercizi di stile”: Riccardo Cappello, con costumi perfetti nella loro essenzialità, e Gaetano La Mela, cui si deve l’affascinante abito di luci indossato dallo spettacolo. Il light designer firma anche l’elegante animazione grafica, realizzata con la collaborazione di Michele Truglio. E altri contributi si devono allo scenografo Andrea Taddei e a quel Francesco Scimemi che è il più mago di tutti.

Emanuela Pistone non ha lesinato spezie per questa pietanza preziosa – le trovate registiche della mano da Famiglia Addams (l’arto è di Silver Ruggeri), dei fiori pronti ad appassire e rifiorire, ma soprattutto l’uso delle lettere per costruire una scena sempre in movimento come le parole – mentre Agostino Zumbo e Francesco Foti sono dei “ragazzi irresistibili”.

Davvero fenomenali, quei due, soprattutto nel non perdere mai la concentrazione e nel divertirsi, divertendo.

Sarebbe un delitto, per concludere, non riprendere questo spettacolo, rappresentato soltanto il 2,3,4 e 5 maggio.

Un delitto non riprenderlo e non mandarlo in tournee.

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