Didattica dell’inclusione e ingiustizie di Stato
Il sabato sera, sebbene in “tempo di covid” sia tutto diverso dall’ordinario, è sempre il momento in cui tanti giovani, nel pomeriggio, si riversano nelle strade per stare insieme e passare qualche ora in socialità. Certo tale momento di positività per tanti non risulterebbe dagli usufruitori meritato perché per alcuni mediante questi comportamenti le nuove generazioni sarebbero le catalizzatrici del virus mentre per altri gli stessi sarebbero quelli a cui è andata meglio perché hanno beneficiato della “dad”, “rispondendo all’appello e poi tornandosene a dormire”. Ebbene per me i “ragazzi del 2005” e giù di lì sono sempre stati un grande motivo di riflessione. Tuttavia non mi sono mai chiesto, da un anno a questa parte, cosa pensino o sperino per il loro futuro “post-pandemico” ma mi sono sempre chiesto soltanto come vivano nel loro “infinito presente pandemico”. E la mia riflessione ogni volta termina sempre con le medesime domande conclusive. Quanti di questi giovani volti non torneranno più nelle loro classi? Quanti di questi volti hanno visto violenze domestiche dettate dalla disperazione? E soprattutto quanti tra loro saranno talenti sprecati che la necessità di ricercare un lavoro ha costretto ad abbandonare quelle aule? Abbandonarle per un lavoro, il primo utile, il primo sottopagato, precario, sfruttato. Quanti lo hanno fatto ipotecando per il tempo eterno dell’avvenire ciò che non si è potuto fare perché altro necessitava? e tutto non per il beneficio immediato di una furberia ma, proprio, per la necessità imminente di vita e sostentamento? Successivamente a questa riflessione seguono sempre altre che, però, anche in questo caso, terminano al pari con la medesima domanda. Lo stato assistenziale, per intenderci quello delle pari opportunità, perché non ha saputo evitare tutto ciò? Perché la tecnologia avanzata della didattica “in dad” non è stata veicolo di miglioramento sociale ma, anzi, ha accentuato le differenze sociali? la didattica dell’inclusione tradizionalmente ha sempre focalizzato la propria attenzione, a livello operativo, sulle condizioni di svantaggio fisico di un soggetto perché per le altre doveva esserci lo stato a farvi fronte. Oggi, però, purtroppo, lo stato non è riuscito nel suo compito più endemico, cioè quello di arginare la risacca connessa al fatto che l’area dello svantaggio scolastico è molto più ampia di quella riferibile esplicitamente alla presenza solo di un deficit fisico perché lo svantaggio spesso è anche e soltanto socioeconomico, linguistico e culturale. E proprio la cultura, intesa come atteggiamento nei confronti di un fenomeno, è il risvolto più tragico di questa pandemia. Perché quando domani si faranno discorsi morali sui numeri dell’abbandono scolastico non ci si potrà stupire se in risposta ci si vedrà chiedere dove era lo stato quando alcuni avevamo un computer soltanto ma eravamo tre fratelli e non riuscivano a seguire la dad soprattutto quando la madre piangeva perché il padre ubriaco per disperazione urlava e rompeva tutto. Be’ allora la risposta sarà semplice. Semplicemente lo stato era a sindacare di banchi a rotelle ed a scrivere piani per il Recovery plan che prevedessero programmi spaziali lunari. Così mentre immaginavamo basi spaziali sulla luna perdevamo una generazione che forse sarebbe stata in grado di realizzarle ma che ora, purtroppo, scarica mobili per 30 euro al giorno o recupera crediti, in via telefonica, per tutto il giorno, per 300 euro al mese. In fondo aveva ragione Pino Aprile a dire che non sappiamo quanto ingiusto sia il nostro paese. Certo dopo l’anno passato lo sappiamo un po’ meglio, il problema è che ormai è troppo tardi…