Politica

Ddl lavoro: la Camera rifiuta l’emendamento sul salario minimo

È stato respinto alla Camera l’emendamento delle opposizioni al Ddl lavoro per l’istituzione del salario minimo, con 148 voti contrari e 111 voti favorevoli. Poco meno di un anno fa, il 1° maggio 2023, la maggioranza aveva rifiutato la proposta di legge unitaria presentata dai cinque partiti di opposizione con un emendamento che conferiva una delega al governo per una normativa alternativa. L’esecutivo aveva poi girato la questione al Cnel, guidato da Renato Brunetta, il quale, alla fine, ha dichiarato che un salario minimo per legge non è necessario. Oggi, a distanza di un anno, la posizione delle maggioranze è rimasta invariata. Infatti, mentre l’opposizione si è mostrata favorevole al progetto, ad eccezione di Italia Viva (che si è astenuta), la maggioranza di centrodestra ha stroncato ogni speranza. I partiti di maggioranza, infatti, hanno respinto l’emendamento che proponeva l’introduzione del salario minimo in Italia, approvando invece una norma che annulla il Jobs Act del Governo Renzi, nella parte in cui cercava di contrastare le “dimissioni in bianco” e i licenziamenti mascherati da dimissioni del lavoratore.
Nonostante la disfatta, Giuseppe Conte, primo firmatario dell’emendamento sul salario minimo, prendendo la parola in Aula ha ribadito: “Noi non ci arrenderemo mai sul salario minimo”. Poi ha aggiunto: “Abbiamo raccolto le firme del Paese; forti del sostegno popolare, torneremo a interpellare le vostre coscienze. Molti vostri elettori sono favorevoli a questa misura e sono convinto che molti di voi, nel foro interno, credono che questa misura sia necessaria”.
Conte ha persino accusato la maggioranza di “amichettismo”: “Se sei amico di Arianna Meloni e hai un autonoleggio, passi a gestire l’Ales e ottieni uno stipendio di 150mila euro. È questa l’Italia che non vogliamo, un’Italia che lascia i giovani sottopagati e favorisce l’amichettismo. Per questo i nostri giovani cercano rifugio in altri Paesi”. Per il Pd ha preso la parola Maria Cecilia Guerra, responsabile nazionale Lavoro del partito: “L’articolo 36 della Costituzione ci dice che il lavoro è dignità e libertà, e che il salario deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro, perché altrimenti il lavoro perde dignità e libertà. Noi siamo per salario minimo perché siamo contro la schiavitù”.
Anche il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, si è espresso in Aula con parole accusatorie: “L’obiettivo è costruire una protezione sociale contro una diseguaglianza che ormai raggiunge livelli di disperazione in molti settori del nostro Paese. Anche per chi ha la fortuna di avere un lavoro, il rischio povertà è dietro l’angolo: lavorare ed essere poveri, due concetti che non dovrebbero coesistere. Questa maggioranza è allergica alle regole, o almeno, per essere più precisi, ad alcune regole: è allergica a tutte quelle misure che tutelano i più vulnerabili. Questa è la destra sociale a chiacchiere, che quando si occupa delle questioni concrete torna a essere la destra delle élite e dei privilegi”.
Tuttavia, in questo clima di arringhe, risulta rilevante anche la posizione di Italia Viva. Infatti, se in un primo momento abbraccia la linea del rientro nella coalizione di centrosinistra, successivamente cambia idea riguardo al salario minimo, sul quale, invece, si era sempre dichiarata sfavorevole. Non a caso, non esistono firmatari del partito per la proposta di legge unitaria, e non ha neanche partecipato alla raccolta firme per la proposta di iniziativa popolare. Inoltre, il capogruppo Davide Faraone spiega che “il salario minimo è per noi una misura indispensabile”, anche se “il suo costo non può essere fatto ricadere sulla fiscalità generale o sulle spalle degli imprenditori”.
Risulta incoerente anche la posizione delle maggioranze, dal momento che andrà a colpire soprattutto le donne in maternità, contraddicendo così le intenzioni di questo Governo, che si proclama a favore della natalità e dei diritti delle donne. Nella sua versione iniziale, quella proposta in aula, l’articolo 19 del DDL lavoro stabiliva che “in caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore”. Con il sottinteso che il dipendente avrebbe perso anche il diritto alla Naspi.
Contro queste dichiarazioni si sono espresse le opposizioni, riuscendo a far approvare in commissione una proposta di modifica migliorativa che introduceva l’obbligo per l’ispettorato di verificare questa tipologia di dimissioni “in bianco”. Ma ancora una volta la maggioranza ha opposto resistenza e ha bocciato l’emendamento in aula. Il risultato finale è che i diritti essenziali dei lavoratori – come il salario minimo e la tutela in caso di licenziamenti ingiusti – continuano a essere ignorati da questo Governo di centrodestra. Tuttavia, a prescindere dalle motivazioni, ideali politici o questioni di opportunismo non dovrebbero mai essere anteposti ai diritti dei cittadini.
È evidente, dunque, che questo Governo sembri ignorare, o forse sarebbe meglio dire, dimenticare che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, come sottolinea l’Articolo 1 della nostra Costituzione. Negare un progetto di legge che tuteli i lavoratori equivale a smontare la nostra stessa Costituzione.
In fondo, oggi, vivere in un’Italia che lascia morire i propri cittadini di fame o che addirittura li considera colpevoli della propria povertà è una delle tante ingiustizie che i cittadini sono costretti a subire.

Articoli correlati

Back to top button