Spettacoli

Dalla letteratura alla drammaturgia: “Il male oscuro” di Giuseppe Berto

Un riuscito esperimento di Giuseppe Dipasquale alla “Sala Verga”.

È in scena alla Sala Verga del Teatro Stabile di Catania “Il male oscuro” di Giuseppe Berto. Drammaturgia e regia di Giuseppe Dipasquale. Interpreti: Alessio Vassallo, Ninni Bruschetta, Cesare Biondolillo, Lucia Fossi, Luca Iacono, Viviana Lombardo, Consuelo Lupo e Ginevra Pisani.
Scenografo: Antonio Fiorentino; direttrice di scena: Francesca Longoni; costumista: Dora Argento; coordinatore dei servizi scenici: Giuseppe Baiamonte; musicista: Germano Mazzocchetti; coreografa: Rebecca Murgi. Produzione: Teatro Biondo-Palermo, Teatro Stabile di Catania, Marche Teatro.

Come per molti libri poi divenuti iconici (basti pensare a ‘Il Gattopardo’) il romanzo di Giuseppe Berto (1914-1978), non ebbe una facile accettazione editoriale. Venne pubblicato nel 1964, quando l’autore aveva già cinquant’anni e un passato politico ben delineato. Figlio di un maresciallo dei carabinieri (come nel romanzo e nella pièce), nel 1929 era entrato negli Avanguardisti, successivamente fece parte dei Giovani fascisti e poi dei Gruppi universitari fascisti (si sarebbe laureato in Lettere) e fu capo manipolo della Gioventù italiana del Littorio.
Insignito di due medaglie al valor militare durante la guerra in Abissinia del 1935, durante la seconda guerra mondiale, nel 1942, fu inserito nel VI Battaglione Camicie Nere. Dopo El Alaimen, fallito un tentativo di rientrare in Italia, venne spedito a rinforzare il X Battaglione Camicie Nere “M”, i fedelissimi di Mussolini. Caduto prigioniero, nel 1943 fu rinchiuso in un campo di concentramento in Texas. Durante la prigionia avrebbe preso consapevolezza della sua giovanile passione, inconscia e frustrata: scrivere! Compose infatti numerosi racconti, sempre più impegnati, tre dei quali avrebbero fatto parte successivamente del volume ‘Un po’ di successo’ (Milano, 1963). Tornato in Italia nel febbraio del 1946 ebbe un fortunato incontro con Leo Longanesi che gli pubblicò “Il cielo è rosso”; un romanzo apprezzato dalla critica e vincitore di numerosi premi.
Nel 1964 usciva per i tipi di Rizzoli, ma in precedenza rifiutato da più di un editore, “Il male oscuro” che si aggiudicò in una sola settimana i due premi letterari Viareggio e Campiello. Fu un successo internazionale di lunga durata, tradotto in francese, inglese, spagnolo e tedesco e da cui verrà anche tratto un film, diretto nel 1989 da Mario Monicelli.

A Giuseppe Dipasquale si deve oggi il coraggioso esperimento drammaturgico di trasformare il romanzo in pièce teatrale. In una scenografia quasi surreale si inserisce la nota vicenda di Bepi che, divorato dai sensi di colpa per non aver assistito il padre malato di cancro e non essere giunto in tempo nell’istante del trapasso, cade in un’ipocondriaca e incurabile depressione: il male oscuro e l’inerzia che l’accompagna che lo blocca per un decennio.
Approdato finalmente alla psicoanalisi che riportando alla coscienza episodi salienti del suo passato (dalla severa educazione infantile, alle difficoltà scolastiche, all’approccio col sesso, al matrimonio e alla paternità) attraverso i numerosi colloqui con il medico freudiano (Nicola Perrotti), arriverà alla guarigione.
“Il male oscuro – spiega Giuseppe Dipasquale – … colpisce per la sua attualità, per l’analisi accurata di un malessere profondo, nel quale oggi si riconoscono molti di noi. Bepi, l’io narrante del romanzo…sprofonda nel baratro della depressione. Decide, quindi, di affidarsi alla psicanalisi per comprendere le ragioni profonde del suo malessere”.
Con grande maestria il regista trasforma i singoli ricordi in flashback teatrali che fanno rivivere, con una scenografia affascinante per la rapidità quasi impercettibile dei cambiamenti di scena, l’accavallarsi degli episodi sapientemente intrecciati ai colloqui psicoanalitici.
“Siamo riusciti – aggiunge a questo proposito il regista – a ricreare tutte le condizioni linguistiche e di azione sulla scena, attraverso l’interpretazione guidata con gli attori, le scene, i costumi e le musiche, al fine di restituire una sindrome costante così come si legge nel romanzo.”
“L’inettitudine del protagonista – continua Dipasquale – molto simile a quella dell’antieroe sveviano de ‘La coscienza di Zeno’, cui Berto ha dichiarato di essersi ispirato, produce paradossalmente situazioni tragicomiche, attimi di straniamento che, tuttavia, aiutano a comprendere la complessità di una condizione esistenziale tipicamente contemporanea…”
Dichiarato guarito dal medico, venuto a conoscenza del tradimento della moglie, Bepi lascia la famiglia e decide di ritirarsi in Calabria:
“l’isola degli aranci sta dall’altra parte celeste e gialla e un poco verde nella sua breve lontananza, e in mezzo c’è un piccolo tratto di mare proprio piccolo ma non ho il coraggio di passarlo, padre non ho coraggio, … e del resto non tutti coloro che volevano la terra promessa poterono giungervi, non tutti furono degni della sua stabile perfezione, e così verso sera cerco un posto da dove si possa guardare la Sicilia, di notte l’altra costa è una lunghissima distesa di lampadine con segnali rossi e bianchi … ecco qui mi costruirò con le mie mani un rifugio di pietre e penso che in conclusione questo potrebbe andar bene come luogo della mia vita e della mia morte”.
Dipasquale, in conclusione, arriva al finale affidando alle parole del protagonista anche un rivisitato atto di fede. La sua sofferta religiosità si sublima nell’ultima frase: «e poi sarà tempo di dire Nunc dimittis servum tuum Domine, forse è già tempo.»

Foto di Rosellina Garbo

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