Spettacoli

Continua a Sala Futura la saga de “Gli zii di Sicilia” dedicata a Sciascia

In scena a Sala Futura: “Il Quarantotto”, tratto da “Gli zii di Sicilia” di Leonardo Sciascia. Regia di Laura Sicignano. Con Joele Anastasi, Federica Carruba Toscano, J. Enrico Sortino, musiche Puccio Castrogiovanni, scene Elio Di Franco, costumi Vincenzo La Mendola. Produzione Teatro Stabile di Catania

Continua con “Il Quarantotto” la saga de “Gli zii di Sicilia” dedicata a Leonardo Sciascia e promossa dal Teatro Stabile di Catania cui seguirà: “La morte di Stalin” con la regia di Ninni Bruschetta (9-12 luglio al Palazzo della Cultura di Catania). A questi primi tre racconti, pubblicati nel 1958 nei “Gettoni” di Vittorini, si sarebbe aggiunto nel ‘60 “Antimonio”. 

Siamo, si è già detto da chi scrive, a proposito de “La zia d’America”, “nella primissima fase della produzione dello scrittore di Racalmuto, nel suo momento di maggior contatto con il neorealismo in affinità con altri autori lanciati dalla collana “Gettoni” come Calvino e Fenoglio…. I racconti hanno in comune il filo conduttore il controverso tema del cambiamento epocale.

È una letteratura militante, ribadiamo, “un realismo critico che lo avrebbe portato, attraverso la sottile capacità inquisitoria e la penetrante ricerca storica, sui seggi delle istituzioni governative”.

È questo racconto veramente l’altra faccia della coeva cristallizzata visione del principe Fabrizio di lampedusiana memoria? I personaggi sciasciani ne rappresentano davvero l’opposto?

Al di là della ‘rassegnazione gattopardiana’ questa pièce, forse, fa sorgere dei dubbi.

Rievocando una tappa importante del Risorgimento siciliano, Sciascia vuole sottolineare come i camaleontici comportamenti di nobili, ecclesiastici e notabili avessero consentito alla classe dominante di trasformare -cavalcando i mutamenti politici- rivoluzione e controrivoluzione in un sostanziale immobilismo sempre a loro favore perché essi sanno «quel che fare» quando è il tempo di «badare alle cose proprie». Come afferma lo stesso barone: “Domani, appena l’alba fa occhio, vado dal vescovo: voglio vederci chiaro in quello che succede, se rivoluzione dobbiamo fare la facciamo tutti, non vi pare?”

È un racconto o un saggio? Lo stesso scrittore ritiene, a detta di Antonio Di Grado, “di essere saggista nel racconto e narratore nel saggio”.

La genesi del racconto è riconducibile ad un libro, donato da Luigi Compagnone a Sciascia nell’estate del ’57, Dal ’48 al ’60 di Sebastiano Nicastro, che aveva ricostruito, agl’inizi del ’900, la vita di Mazara del Vallo puntando la sua narrazione sui canoni della microstoria, in posizione antesignana ( la ‘nouvelle histoire’ si conoscerà in Italia negli anni Sessanta): “Appena letto il libro, dichiarò Sciascia nel giro di quindici giorni, ho scritto il racconto Il quarantotto”.

Il protagonista ricorda la sua giovinezza con il padre bracciante del barone Garziano opportunista, adultero e di sua moglie, donna Concettina, bigotta, ignorante e gelosa: “Mio padre -scrive l’autore – curava il giardino del barone Garziano, due salme di terra che si aprivano a ventaglio intorno allo spiazzo dove sorgeva il palazzo; terra che a piantarci un palo dava acqua, nera e fitta di alberi, pareva si fosse a due ore di notte, dentro quel nero di alberi e di terra, anche se il sole vampava da scorticare”. A Castro i notabili comandavano in paese in combutta col barone e con l’avido e subdolo vescovo, complici tutti nei loschi affari. “Il vescovo”: “Mio padre curava il giardino del barone Garziano, due salme di terra che si aprivano a ventaglio intorno allo spiazzo dove sorgeva il palazzo; terra che a piantarci un palo dava acqua, nera e fitta di alberi, pareva si fosse a due ore di notte, dentro quel nero di alberi e di terra, anche se il sole vampava da scorticare attraverso il monastero di San Michele e la mensa vescovile, aveva in mano un buon terzo della proprietà terriera di Castro; altrettanta ne aveva il barone; il rimanente territorio era diviso in piccole proprietà e in terre demaniali: e le terre demaniali il barone lentamente ma sicuramente veniva usurpando.”

Giunta la notizia della rivolta scoppiata a Palermo il 12 gennaio, il popolo di Castro insorge il 16 dello stesso mese. Ma il moto viene ‘neutralizzato” sul nascere dal vescovo che, ricevuto il comitato rivoluzionario si adopera per diventarne il presidente invitando a farne parte anche il barone Garziano, Con la repressione dei moti nel ’49 e nel ’50 finisce ‘la farsa’, gli interpreti si tolgono la maschera, e comincia la repressione.

È la verità di don Paolo, ricorda il protagonista, per il quale la rivoluzione era solo: “un modo di sostituire l’organista senza cambiare né strumento, né musica: a tirare il mantice dell’organo restavano i poveri”.

Ma il ragazzo vuole ritentare ancora una volta, nel 1860, unendosi a Garibaldi in marcia verso il suo paese, dove pensa di rubare, come sfregio, le pecore di Garziano per sfamare le camicie rosse. Ma, deluso, trova il barone pronto ad accogliere il ‘liberatore’ offrendogli ospitalità insieme ai suoi volontari. Ancora una volta l’inganno si perpetua, la rivoluzione è fallita, la speranza di rinnovamento vanificata.

Dal ‘48 al ’60, rivoluzionari e reazionari hanno indossato e buttato via la maschera, hanno mutato casacca, seguendo sempre le regole del tornaconto politico e sociale e passando di volta in volta dalla ‘festa’ alla ‘tragedia.

Il Quarantotto di Sciascia nell’interpretazione e nella regia iconica e come sempre aperta al futuro della brava Laura Sicignano è diventata una profonda e al tempo stesso gustosa “operina -per usare le sue parole- per corpi, parole, musiche, in uno spazio-luce che rappresenta sé stessa, il teatro ‘speculum mundi. È una storia del 1848, è una storia di oggi”

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