Teatro

Brancati, Musumeci mattatore nella “Pensione Eva” di Camilleri diretta da Dipasquale

Beh, c’è voluta una bella faccia di bronzo per rappresentare un testo come La pensione Eva di Andrea Nenè Camilleri nella Catania non solo di Micio Tempio, poeta di tutti i postriboli, ma del Giovanni Verga degli ingravidabalconi e soprattutto di Vitaliano Brancati, con i suoi eterni Castorina, Magnano, Muscarà, Percolla, Scannapieco.

Nella città del gallismo, fondali barocchi Patrimonio dell’Umanità celano ancora le putride viuzze di San Berillo, dove aleggiano i fantasmi di personaggi leggendari, gelosamente custoditi nella memoria di una certa borghesia. Basta digitare il nome del primo vescovo della città su un qualunque motore di ricerca per essere sommersi da storie. A cominciare da quella della z’a Mattia Abramo che ancora a novant’anni esercitava con piglio giovanile il suo mestiere di maitresse: i suoi fastosi e affollatissimi funerali furono celebrati qualche mese prima che la zia potesse subire l’onta della chiusura per via della legge della senatrice Lina Merlin. A rileggere le nostalgiche cronache, altre memorabili signorine furono Nedda Grasso e altre donne identificate con soprannomi:  Santa l’orba, Ninetta ‘a bumma, Mara ‘a pazza – la più bella di tutte a quanto pare -, e quell’Anna, che nel momento culminante del finale travolgente fingeva l’orgasmo gridando “accupu!” (soffoco).

Giuseppe Dipasquale, dunque, da catanese, avrebbe avuto una bella faccia tosta a riscrivere per il teatro il romanzo dedicato dal suo amico Camilleri a un postribolo realmente esistito a Porto Empedocle. A sua discolpa va ricordato il sodalizio di lunga data che li ha uniti: tra l’altro, il regista ha adattato e diretto nel 1998 Il birraio di Preston, nel 2007 La concessione del telefono e, nel 2018, scrivendolo a due mani con il vigatese, Filippo Mancuso e Don Lollò.

Non c’erano scusanti, però l’ardita sfacciataggine di Dipasquale avrebbe potuto essere mitigata… dall’impiego di una maschera.

E così, poiché il regista sa bene, come si dice nell’areale etneo, “dove dorme il lebbro”, questa maschera ce la ritroviamo padrona del palcoscenico, esilarante protagonista della storia narrata.

Sì, perché Concetto Musumeci, detto Tuccio, che tra qualche giorno soffierà su ottantanove candeline, non può più essere considerato semplicemente un interprete. Fu nel Settecento che Goldoni impose agli attori di abbandonare le maschere e seguire un testo rigido senza più andare a braccio. Ma ad alcuni di essi, i più grandi, la maschera, divenuta costume, rimase attaccata addosso come una seconda pelle. E non c’era copione che reggesse alla loro creatività.

Tuccio Musumeci, dunque, è una maschera, non un semplice attore. Capace di captare la forza soprannaturale del divino e incarnare una comunità. È il genius loci catanese, un uccellaccio secco come Pantalone, dalla battuta fulminante, umanissimo e perennemente affamato. Non di cibo ma di vita.

Così, grazie a lui, che in scena interpreta il cavalier Lardera, la Pensione Eva, pur rimanendo a Vigata, è stata idealmente adottata da Catania. E non è rimasto che riconoscere allo sfacciato Dipasquale, una volta di più, una straordinaria abilità nel rendere teatro la parola scritta. Con una comprensibile venatura affettuosa per l’amico, ormai scomparso, Camilleri.Anche se negava d’esser lui, infatti, il Nenè di cui narra, con i coetanei Jacolino e Ciccio, è un adolescente con le passioni di un anziano, colmo di nostalgia.

Nel terribile periodo che precede lo sbarco Alleato, i tre ragazzi crescono nel casino, frequentando ogni lunedì, giorno di chiusura, la Pensione Eva e apprendendo dalle signorine ogni sorta di leggenda o, forse, di verità. Storie che si materializzano nelle segrete stanze celate nella scenografia, creata anch’essa da Dipasquale: vecchi che recuperano la potenza sessuale sotto le bombe degli americani, angeli che parlano inglese piombati con un paracadute sul terrazzo del postribolo e creduti angeli, prostitute utilizzate come staffette partigiane e l’immancabile bicarbonato del cavalier Lardera.

E sono stati applausi scroscianti per tutti. Caldi, affettuosi.

Per il festeggiatissimo protagonista, ovviamente, e con lui per Debora Bernardi, la signora Flora, maitresse ricca d’umanità, per il versatile Cosimo Coltraro e per i ragazzi cresciuti nel casino, interpretati da Daniele Bruno, Claudio Musumeci e Vincenzo Volo. Senza dimenticare le signorine: Lucia Fossi, Anita Indigeno, Ramona Polizzi e Vittoria Scuderi.

Consensi anche per gli altri professionisti che hanno collaborato con Dipasquale alla realizzazione dello spettacolo: Matteo Musumeci con le sue belle musiche – e nello spettacolo ci sono anche divertenti inserti delle canzoni più in voga prima della fine della seconda guerra mondiale come il Trotta cavallino di Gorni Kramer cantata da Natalino Otto -, Giorgia Torrisi con i puntuali movimenti coreografici e Dora Argento con gli estrosi costumi.

Al termine dello spettacolo – che ha debuttato in prima nazionale nel Teatro Brancati il 13 aprile e sarà ripreso nel prossimo week end – in camerino, Tuccio Musumeci parla con chi è andato a trovarlo.

E racconta di quanto si mangiasse bene, nei casini, prima della Legge Merlin.

Le foto sono di Dino Stornello

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