Anno nuovo, moglie nuova! con “Divorzio all’italiana”
«L’onore è il complesso degli attributi morali e fisici che rendono un uomo rispettabile e rispettato nell’ambito della società in cui vive.»
Nel 1962, l’Italia veniva riempita di cartelloni con su scritto: «Anno nuovo, moglie nuova!». Era quella che oggi chiameremmo la “campagna di marketing” del film di Pietro Germi: Divorzio all’Italiana.
Ambientato in Sicilia nella città immaginaria di Agramonte, ha per protagonista Fefè, un annoiato barone siciliano sposato con Rosalia, una vivace ma opprimente donna col monociglio. In questo infelice stato, Fefè sogna (e vede dormire dalla finestra del bagno) l’amore proibito, sua cugina Angela.
Al contrario di ciò che generalmente accade nella narrazione in flusso di coscienza, i pensieri di Fefè subiscono le circostanze. Siamo abituati – e a ragione – a protagonisti che realizzano discorsi puliti, chiari e limpidi, indipendenti da ciò che accade a schermo. Ma quando Fefè, in chiesa, illustra e spiega tutti i legami di parentela, basta uno sguardo di Rosalia per zittirlo, e poi riprendere a parlare sottovoce; quasi a suggerire che la moglie sentisse che stava pensando troppo forte.
E per restituire appieno il fastidio che Fefè prova per Rosalia, il film sfocia nell’horror in alcune brevi scene, come quando dalle persiane, Fefè guarda la tinozza per fare il sapone e immagina di aggredire la moglie, gettarla nell’acqua bollente e, mentre cuoce, mescolare il corpo fino a scioglierlo, lasciando intatti solo i vestiti. Poi la vede affogare nelle sabbie mobili e su di un razzo, pronta a partire per lo spazio profondo.
La situazione si aggrava ulteriormente quando si scopre che Angela ricambia i sentimenti di Fefè. Purtroppo i loro scambi affettuosi durano poco, perché il padre di Angela, leggendo il diario segreto della figlia, scopre l’esistenza di un “amante” (ignoto) e la spedisce in collegio.
È a questo punto della storia che Fefè viene a conoscenza dell’articolo 587 del codice penale: il delitto d’onore. “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre l’illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni.”
Disperato, Fefè decide di fare una passeggiata in paese con la moglie, vestita di tutto punto e a teatro osserva i potenziali “candidati amanti”, ma l’unico probabile risulta essere il boss del paese: niente da fare. Poi, in chiesa, sottolinea a Rosalia la bellezza dell’angelica voce di Tonino, ignorando, come gli rivelerà la moglie, la pratica della castrazione dei bambini maschi per preservare la voce acuta… Anche in questo caso: nulla da fare.
La salvezza arriva quando da alcune segrete lettere della moglie, Fefè scopre l’esistenza di un vecchio spasimante, Carmelo Patanè, che in quel momento si trova proprio ad Agramonte. Con una scusa (il restauro degli affreschi sui tetti) riesce a farlo entrare in casa e, installato un registratore, ascolta i loro discorsi. Germi poi si diverte a creare situazioni comiche al di fuori della vicenda in sé, come quando vediamo Rosalia e Patanè girare per tutta una stanza in strane movenze all’indietro perché Fefè stava riavvolgendo il nastro registratore.
Un giorno, il vescovo della chiesa mette in guardia dalle oscenità della Dolce Vita di Fellini e invita a ignorarlo; come effetto, l’intero paese (che cosa fa Anita Ekberg!) si riversa in massa al cinematografo – tutti tranne Rosalia, che dice di stare male – e così in un gioco che sfiora il metacinematografico vediamo Fefè-Marcello Mastroianni andare a vedere un film con protagonista Marcello Mastroianni.
L’assenza di Rosalia fa intuire a Fefè che possa tradirlo, così pianifica di uscire prima della fine del film per tornare a casa, beccarli e poter così attuare il suo delitto; ma quando avviene è troppo tardi, Rosalia e Patanè sono fuggiti.
In paese, Fefè viene disprezzato; ha perso l’onore, quindi ha perso il rispetto.
Poco dopo, a causa di un errore nella spedizione delle lettere, il padre di Angela muore d’infarto scoprendo l’identità dell’amante di Angela e prontamente, Fefè riprende la lettera, nascondendola a tutti gli altri. Al funerale, la moglie di Patanè chiede a Fefè se vuole vendicarsi, lui si mostra titubante e riceve uno sputo in faccia. Angela lo “salva” dall’umiliazione, pulendogli il viso con un fazzoletto.
Quando però il boss del paese gli rivela la locazione degli amanti, Fefè non può fare altrimenti. Arrivato in ritardo, poco dopo che la moglie di Patanè ha già compiuto il suo delitto, Fefè completa l’opera. In tribunale, l’avvocato che si era già aggraziato tempo prima, organizza una difesa coi fiocchi. Mancando “lo stato d’ira” che giustificava il delitto d’onore, la difesa verte sulla condizione di umiliato di Fefè e la sua reputazione ad Agramonte. La retorica funziona e Fefè viene condannato alla pena minima: tre anni.
Tornato in paese come uomo nuovo, viene festeggiato da tutti. Immediatamente si sposa con Angela e insieme partono in luna di miele. Su di una barca, Fefè e Angela si scambiano un bacio appassionato; felici che la storia sia finita per il “meglio” (o peggio, dipende dai punti di vista), Germi lascia che la macchina da presa si muova, concludendosi con il piede di Angela che incontra il piede del timoniere in un altro scambio d’affetto appassionato.
Divorzio all’italiana è inserito nella lista dei “100 film italiani da salvare” e, nonostante le leggi siano fortunatamente cambiate nel corso di questi anni, il film non smette di raccontare la Sicilia e i siciliani, mostrando come alcuni valori (l’onore!) evadano dai contesti mafiosi o storici nei quali sono spesso inseriti e si presentino invece come un comportamento antropologico “siculo”. Ma la vera grandezza del film sta nel presentare quelli che sono eventi e situazioni tragiche, perfette per una penetrazione psicologica da romanzo russo ottocentesco, per raccontarli invece con ironia. Perché non c’è miglior modo per smascherare le storture di una società se non con la risata; d’altronde la satira non è un’arma contro il potere?