L'Opinione

Amine Khalif e Angela Carini vittime della strumentalizzazione politica e sociale

E mentre le Olimpiadi incollano le nazioni davanti ai televisori per tifare i propri atleti, la polemica, ancora accesa, sull’incontro di box tra la nostra atleta Angela Carini e l’avversaria, l’atleta algerina Imane Khelif, ci pone brutalmente di fronte a una surreale realtà: la nostra società che grida a gran voce inclusività e parità, non è riuscita a porsi come garante di questi principi e ad assicurare un equilibrio che tuteli entrambe le parti interessate. Una società che solo illusoriamente garantisce integrazione e parità di diritti e che nella pratica non esita a perpetuare comportamenti lesivi della dignità della persona.
Si è assistito a una impietosa gogna mediatica che ha bollato senza alcuna possibilità di appello l’atleta algerina. Immediatamente, la massa, dall’alto del suo eccelso pulpito, ha tacciato e insultato l’atleta algerina etichettandola come trans e con ogni epiteto possibile, dimostrando la consueta ignoranza, magnificente cultura della nostra epoca, e purtroppo l’abituale prassi a lasciarsi trasportare dalle vuote e false ondate di indignazione che invadono i social media.
Vergognosamente, la nostra società non ha mostrato alcun rispetto nei riguardi di Imane Khelif, sia come individuo che come atleta, l’ha trasformata in un fenomeno da baraccone e ha imboccato la strada opposta a quella che tanto decanta.
E mentre ha fatto a pezzi l’atleta algerina, ha penalizzato la sua stessa atleta che, pressata dall’acceso quanto sterile dibattito sociale, si è ritrovata a dover pensare di dover affrontare non un’avversaria al suo livello, non una donna come lei, ma un’atleta “sbagliata”.
Due donne sul ring, entrambe penalizzate da una società che non ha permesso loro di essere se stesse. Da una politica che, immediatamente, ha colto l’occasione per trasformare un episodio, che sarebbe dovuto rimanere circoscritto in ambito sportivo, in un caso politico e lo ha amplificato fino a trattarlo come un affare di stato, dimostrando, oltretutto, la più totale incompetenza in merito.
Una strumentalizzazione ottusa che invece di promuovere diritti, li ha affossati nella solita becera contestazione che mira solo ad alimentare una sterile opposizione tra partiti.
In questo modo il destino sportivo di tutte e due le atlete è stato compromesso, in nome di una propaganda politica e sociale che in fondo si disinteressa delle reali problematiche che così tanto afferma di sostenere.
E noi, fedeli proseliti, tenendo alte in mano le nostre bandiere di equità e di inclusività,
abbiamo prima criticato e giudicato la scelta della nostra atleta dall’alto dei nostri scranni e poi, non soddisfatti, ci siamo tuffati nell’oceano virtuale alla ricerca di più notizie possibili sulla vita privata dell’atleta algerina e abbiamo scavato così tanto che alla fine abbiamo perso di vista la verità. Ma è ininfluente, l’essenziale è catturare dettagli per poi scaraventarli in rete.
Poco importa se il soggetto di cui si parla è un essere umano come noi.
Si è detto di tutto su di lei, il suo corpo è stato analizzato attraverso la gigantesca lente d’ingrandimento con cui la massa osserva e giudica, e alla fine è stato sottoposto alla sentenza collettiva.
Amine Khalif ha dovuto sopportare un violento e crudele body shaming, quel body shaming che tutti ci premuriamo di condannare come una pratica esecrabile e spregevole.
Tutti abbiamo dimenticato che Amine Khalif è una donna, una persona in carne e ossa che vive da sempre con dei problemi genetici che la nostra società ha volutamente sbattuto in prima pagina per soddisfare la nostra malsana necessità di ergerci a giudici supremi.
Abbiamo puntato il dito su una donna, perché Amine, è una donna nata donna, così come risulta dal passaporto, che soffre di un’anomalia genetica, un aumento eccessivo di testosterone, una malattia accertata: iperandroginismo.
Non è un uomo che ha effettuato cure ormonali e operazioni per transitare nel genere opposto, così come è stato detto da autorevoli e “competenti” personaggi politici.
Invece si è sottolineato a gran voce, sbagliando di grosso, il suo essere transgender operando volutamente una mistificazione della realtà.
Forse avrebbe dovuto gareggiare con una categoria di peso differente, o forse avrebbe dovuto confrontarsi in un incontro con altre donne con le sue stesse problematiche, questo è un problema che in futuro dovrà risolvere il CIO, il comitato olimpico che l’ha ammessa poiché i suoi livelli di ormoni rientravano nei parametri stabiliti.
Ma se il CIO si è dimostrato inadeguato e incapace di affrontare la questione, la nostra società ha miseramente fallito, dimostrando tutta la sua ipocrisia e la grande impostura su cui ha costruito la sua fragile impalcatura, pronta a cadere rovinosamente su tutti noi.

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