“Al di là del mare” di Giovanni Anfuso alle Terme della Rotonda
Da una forte sinergia di immagini, ricordi, interviste, articoli, esperienze, memorie e pensieri nasce questo bel lavoro, ottimamente costruito, del catanese Giovanni Anfuso (classe 1963).
Formatosi in accademia a Roma e sui palcoscenici del Teatro Stabile e del Teatro ‘Bellini’ di Catania, fin dalla prima giovinezza Giovanni Anfuso ha coltivato la vocazione per la regia di prosa e di lirica.
Assistente di Giorgio Strehler, di Lamberto Puggelli (con cui debutta nella regia lirica) e di Glauco Mauri, firma numerosi allestimenti, dirige il Teatro Antico di Segesta e più lavori del Teatro Olimpico di Vicenza; solo alcuni degli altri numerosi impegni tra cui la carica di direttore artistico per “I ART: il polo per l’arte contemporanea”.
Conosco Giovanni Anfuso, sceneggiatore, attore e regista di teatro e opera, da molto tempo e con affettuoso interesse l’ho visto crescere nella sua formazione attraverso gli anni, fino ad arrivare ai successi che costellano la sua carriera giungendo a livelli apicali in Italia e all’estero: direttore Artistico del Teatro Antico di Segesta, come si è detto, regista di melodrammi per l’Ente Lirico di Abruzzo e per il Teatro ‘Bellin’ di Catania, innovativo autore de “𝐿’𝑖𝑛𝑓𝑒𝑟𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝐷𝑎𝑛𝑡𝑒” e “𝐿’𝑂𝑑𝑖𝑠𝑠𝑒𝑎 𝑑𝑖 𝑂𝑚𝑒𝑟𝑜” nella scenografia naturale delle gole dell’Alcantara .
È stato soprattutto il Direttore Artistico del Teatro Stabile di Catania nel 2016 e attualmente è direttore (sezione prosa), insieme a Matteo Pappalardo (musica e danza), per il 2024/2026 del Teatro Stabile ‘Vittorio Emanuele’ di Messina.
Con grande intuito l’autore /regista ha voluto ambientare “Al di là del mare”, una sorta di tragica epopea dell’attuale fenomeno immigratorio, nello spazio, piccolo e impervio, di un gioiello storico dell’archeologia catanese: le Terme romane della Rotonda, poi chiesa paleocristiana.
Il caldo di questa torrida estate, l’assiepamento alla meno peggio del pubblico nell’improvvisata platea hanno paradossalmente preparato gli spettatori all’atmosfera di tragica umanità splendidamente interpretata dai lunghissimi monologhi dell’unica interprete: la poliedrica Liliana Randi.
Gli elementi scenici di Alessandro Chiti, le musiche di Nello Toscano, i costumi di Riccardo Cappello e il ‘fonico’ di Benni Chiarenza hanno contribuito a dare la misura di questo dramma epocale dalle molte sfaccettature, la cui non facile soluzione ‘politica’ rimane comunque incerta, ambigua e… molto lontana.
Dopo aver sottolineato nel prologo il passato ‘italiano’ dei nostri connazionali emigrati (“Poi, pian piano, col boom economico, il fenomeno si arrestò e da terra di “emigrazione” negli ultimi anni l’Italia si è trasformata in terra di “immigrazione”) Giovanni Anfuso, attraverso la voce della Randi, con raffinata sensibilità e intensa umanità mette in scena quelli che “scappano perché non hanno alternative, restare vuol dire morire…”.
E così comincia a dipanarsi questo rosario di ‘misteri dolorosi’:
il somalo Aweis, perseguitato dagli uomini di Al Shabaab legato ad Al Qaeda che distruggono, a Mogadiscio, il cinema che gli dava da vivere e uccidono tutta la sua famiglia senza avere pietà nemmeno della figlia, di una bambina di un mese.
“Ho incontrato il primo trafficante che per 600 dollari mi ha portato in Sudan. Da lì, altri trafficanti per 800 dollari mi hanno fatto entrare in Libia… Amico, il tuo viaggio per me è solo un lavoro – dicevano – Che tu viva o muoia non fa nessuna differenza…Ho visto persone lasciate a morire in mezzo al deserto perché non avevano più denaro per continuare il viaggio… ciò che più mi ha sconvolto è stato constatare come la mente umana possa abituarsi a qualunque cosa… un uomo che muore si trasforma in un paio di scarpe… in una tasca da frugare…in uno straccio per ripararti ”
Imbarcatosi finalmente, dopo cinque giorni di navigazione giunge a Lampedusa:
“Se dove sei non c’è speranza, allora devi fare di tutto per raggiungere un posto dove quella speranza puoi almeno coltivarla. Non importa a quale prezzo.”.
Un messaggio di conforto giunge invece dalla storia di Feven, la rifugiata eritrea cattolica, la cui famiglia era stata decimata nella guerra tra Etiopia e Eritrea: “l’esercito si è portato via tutto: ci hanno costretti ad ammazzarci tra fratelli, hanno distrutto la mia generazione, cancellando i sogni, le speranze, la giovinezza…”.
Rifugiatasi in Sudan, accolta da una parente, ben presto si rende conto che in un paese musulmano una donna senza protezione maschile non può vivere.
Ed elabora la sua decisione: cercarsi un marito!
Lo trova in una chiesa cattolica quando coraggiosamente si fa avanti: “Mi chiamo Feven, sono eritrea, ho bisogno di un marito, mi vuoi sposare?” …il parroco ha celebrato il matrimonio… soli… la guerra ci aveva tolto anche la poesia.”
Incinta di otto mesi, con il marito prende ancora una decisione: la fuga in Europa; nonostante il mare, nonostante la burrasca: “C’era tanto vento, avevo freddo, avevo paura. “Bambina mia” ho sussurrato “spero che tu sia al caldo lì dentro…Hai ragione, questo mare così rabbioso fa davvero paura.”
Quando all’improvviso: “Terra! Terra!” qualcuno cominciò a gridare.
“Avrei partorito in Europa. Sarebbe nata nel continente della pace e della ricchezza. Ne era valsa la pena… Il meglio deve ancora venire, il peggio è passato. È al di là del mare”.
Il 3 ottobre 2013, narrano in conclusione Giovanni Anfuso/Liliana Randi, a poche miglia dal porto di Lampedusa, ha preso fuoco un barcone…ha provocato 366 morti accertati e circa 20 dispersi presunti. Nella notte tra il 18 e il 19 aprile 2015, al largo delle coste libiche, un altro peschereccio si è ribaltato. A bordo c’erano almeno 800 persone. Ne sono state recuperate vive solo 28. Altri due barconi sono naufragati nella notte tra il 27 e il 28 agosto 2015 al largo delle coste libiche occidentali, provocando la morte di almeno 200 persone.
Più di 3000 migranti sono morti solo quest’anno nel Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere le coste europee. E oltre 500.000 sono stati salvati.
Nessuno lascia la casa/
a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo/
Nessuno mette i figli su una barca/
A meno che l’acqua non sia più sicura della terra/
Riecheggia ancora nella memoria quel messaggio in versi antichi che Zaher Rezai, bambino afgano di 13 anni fuggito da casa per salvarsi e morto il 10 dicembre 2008, aveva scritto per superare la paura:
“Questo corpo così assetato e stanco forse non arriverà fino all’acqua del mare. Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi, Dio, che non lascerai che finisca la mia primavera”.
A fine spettacolo un pubblico silenzioso e commosso ha applaudito con calore.
Ognuno forse, nel profondo del cuore, rivolgeva un muto pensiero ai politici di tutto il mondo e di ogni colore:
“TROVATE UNA SOLUZIONE… A QUALUNQUE COSTO…FERMATE QUESTA STRAGE!”