Spettacoli

“A torto o a ragione” di Giovanni Anfuso: il dramma delle coscienze

Quando le luci della ribalta si spengono e si rientra nel quotidiano di più generazioni che non hanno subito direttamente la guerra, prendono voce i dubbi di una coscienza in bilico nell’interpretazione tra vissuti diversi e opposti.
La ricorrenza agatina che permea l’atmosfera, inoltre, e che infervora una città che nella Santa si riconosce totalmente, ci riallaccia, più o meno scientemente, all’eterno rapporto della comunità e del singolo con il potere che, in questo caso, nella Santuzza/città si identifica: una ritualità totalizzante e di ogni tempo.
Come nel Carnevale, ‘semel in anno licet insanire’… purché dopo la ‘festa’ tutto ritorni come prima, allo ‘status quo ante’.
Lo scopo è quello di operare o ripristinare il controllo politico e sociale.
Così tra la ‘base’, o il singolo, e la classe dirigente si innesca un processo di autoidentificazione reciproca dei propri ruoli di ‘protettori e protetti’, o di ‘vincitori e vinti’, o ancora di ‘inquisitori e inquisiti’.
È quest’ultimo il caso della pièce messa in scena in questi giorni alla Sala Verga – una nuova produzione del Teatro Stabile di Catania insieme al Teatro di Roma / Teatro Nazionale e al Teatro Vittorio Emanuele di Messina – che ricostruisce, alla fine della seconda guerra mondiale l’interrogatorio cui viene sottoposto dai ‘vincitori’ americani – il maggiore Steve Arnold – il grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwangler (1886-1954).
Lo spettacolo “A torto o a ragione” è tratto dal testo di Ronald Harwood (1934 – 2020), scrittore, drammaturgo e sceneggiatore inglese di origini sudafricane. Trasferitosi giovanissimo a Londra (1951), dove si formò, entrava a far parte della Shakespeare Company di Sir Donald Wolfit. Dedicandosi – dagli anni Sessanta – alla narrativa e alla sceneggiatura spesso focalizzate sulla seconda guerra mondiale, predilesse temi relativi alla violenza razziale (a Taking sides /A torto o a ragione, 2001), The pianist /Il pianista (2002, sceneggiatura premiata con l’Oscar) e The Statement/La sentenza, 2003).
Lo spettacolo, affidato all’ottima regia di Giovanni Anfuso, da tempo caro al nostro pubblico e a chi scrive, ha visto come interpreti Stefano Santospago, Simone Toni, Giampiero Cicciò Liliana Randi, Luigi Nicotra e Roberta Catanese; scene: Andrea Taddei, costumi: Isabella Rizza; musiche; Paolo Daniele; luci: Antonio Rinaldi; aiuto regia: Lucia Rotondo.
Wilhelm Furtwängler fu certamente uno dei direttori d’orchestra più prestigiosi del suo secolo. Essendosi rifiutato di abbandonare la Germania quando Hitler prese il potere, avendo ricevuto altissime onorificenze dai nazisti – per i quali la musica era superiore a tutte le altre arti – tuttavia, contrariamente a Karajan, non si iscrisse mai al partito nazionalsocialista e, finché fu possibile, protesse i musicisti ebrei.
È anche vero che, pur avendo varie volte cercato di marcare il confine fra sé e il regime, nel 1945 venne ascoltato dalla Commissione di denazificazione.
“A torto o a ragione” (è stato anche un film del 2001diretto da Istvàn Szabò) punta l’obiettivo su uno dei più grandi direttori d’orchestra del Novecento, “tra i massimi interpreti del repertorio romantico – così recita l’Enciclopedia Garzanti – specie di Wagner”: Wilhelm Furtwangler che, a 47 anni, era al culmine della sua carriera quando i nazisti salirono al potere.
Piuttosto che andare in esilio, come fecero molti dei suoi colleghi, Furtwangler scelse di continuare la sua carriera nella Germania del Fuhrer, ottenne premi e alti riconoscimenti (fu nominato consigliere di stato per la Prussia da Göring e in seguito vicepresidente della camera della cultura del Reich da Goebbels), tenne un atteggiamento ambiguo nei confronti di Hitler, senza schierarsi mai né pro né contro il regime ma spesso suonando davanti a Hitler e ai suoi gerarchi. È anche vero, però che non si iscrisse mai al partito nazionalsocialista e si prodigò per salvare dal genocidio molti suoi musicisti ebrei appartenenti al Berliner Philharmoniker di cui era direttore, e fu anche amico di membri dell’élite ebraica.
Nato da una famiglia conservatrice, convinto dell’importanza della supremazia tedesca, non legata alla razza ma alla creatività spirituale e artistica (vedeva la “questione ebraica” come una questione di cultura e non di razza), accolse con favore l’ascesa al potere dei nazisti contro la presunta “immoralità” della Repubblica di Weimar.
Tuttavia entrò in conflitto con il nuovo Stato totalitario già nell’ aprile 1933 quando scrisse una lettera a Goebbels, stampata sui principali quotidiani nazisti per richiesta dello stesso Goebbels, contro l’ancora ‘sussurrato’ bando degli ebrei da tutte le funzioni: un tentativo di negoziare con l’antisemitismo nazista per la protezione dei suoi musicisti.
Protestava sistematicamente contro la presenza di bandiere e contro il saluto hitleriano nelle sale da concerto.
Cercò spesso di evitare di suonare per il compleanno di Hitler, anche se spesso fu costretto a farlo e partecipò a festival e concerti nella Germania nazista.
Furtwängler vedeva se stesso come rappresentante e difensore del glorioso patrimonio musicale; a motivare le sue decisioni – dichiarava – era la passione per la musica, non la ricerca di favori politici.
Ciononostante solo verso la fine della guerra, quando si profilava con certezza la sconfitta tedesca, il maestro lasciò il Terzo Reich per rifugiarsi in Svizzera sostenendo di essere rimasto in Germania per resistere dall’interno al totalitarismo, e alla ‘ventilata’ Shoah’, e proclamando la sua “convinzione che l’arte non ha nulla a che fare con la politica, con il potere politico, con l’odio verso gli altri o con ciò che nasce dall’odio verso gli altri”.
Alla fine della guerra tuttavia cadde nella rete del progetto di denazificazione (chiunque abbia collaborato coi nazisti deve essere epurato!), accusato di aver alimentato la propaganda culturale del Terzo Reich.
Dall’istruttoria americana emerge un Furtwängler che da un lato riesce a salvare la vita a molti suoi colleghi ebrei, dall’altro ha rapporti attivi con la società e le autorità naziste.
L’interrogatorio si tramuta in uno scontro tra culture dove si innesta una riflessione sui limiti di una cultura, quella del militare statunitense, con radici troppo recenti per poter affrontare discussioni ad alto livello: un confronto tra l’estetica germanica e il pragmatismo americano, lo scontro tra il rozzo ufficiale americano e il colto e aristocratico musicista tedesco.
Il severo e arrogante comandante Steve Arnold, assolutamente convinto della colpevolezza del musicista, mostra una visione manichea del mondo: esistono solo il bene e il male e l’arte non può essere separata dalla politica.
Gli interessa unicamente compiere un emblematico arresto ‘eccellente’ da sbandierare.
Furtwängler alla fine sarà prosciolto da tutte le accuse e morirà nel 1954.
Ma chi era dunque Furtwängler? Un opportunista interessato alla sua carriera? Un partigiano occulto della resistenza antinazista? Un protettore degli ebrei? Un artista geniale che voleva soltanto porre la Musica sull’altare della Storia?
E ancora: Furtwangler era un criminale o un artista? Qual è il valore dell’arte al servizio della politica? Arte e politica possono restare separate? Il torto e la ragione hanno confini così netti e separati?
Il regista Anfuso in risposta a quesiti laceranti (“Qual è il potere dell’arte di fronte alle dittature ed alle sopraffazioni? L’arte, la cultura, il bello sono gli ultimi avamposti che permettono all’uomo di affermare la propria libertà… rappresentano l’ultima frontiera dell’indipendenza umana?”) lascia aperto il finale… non dà risposte!
Consegna a ciascuno di noi l’esplorazione di complessi dilemmi morali e politici: il dramma delle coscienze.
Dipende solo da che parte ci si schiera.

Foto di Antonio Parrinello

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